Self Compassion: come avviene la compassione verso di sè

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L’autocritica minaccia l’autostima?

L’accettazione di se stessi è un prerequisito fondamentale per una buona autostima, e l’aver avuto genitori eccessivamente critici può aver creato un terreno fertile per lo sviluppo di atteggiamenti auto svalutanti. L’autocritica e la mancanza di accettazione impediscono di vivere appieno il proprio potenziale. Molte persone rinunciano ai propri sogni a causa della paura o non riescono ad avere una serena vita di relazione a causa del disagio che provano nello stare in mezzo agli altri. Tutto questo può spingere a incanalare la motivazione adatta a cercare e trovare la via per guadagnare finalmente serenità e gioia. La direzione da seguire: accettarsi maggiormente per quello che si è mettendo al bando il flagello dell’autocritica e la trappola del non sentirsi abbastanza adeguato, insinuando sentimenti di colpa e vergogna per non essere stati all’altezza. A sentire gli argomenti della voce critica, di cui si è vittime, bisognerebbe essere perfetti e subito! Ma questo non è nella natura delle cose! Dobbiamo capire il motivo per cui ci siamo sentiti costretti a trattarci in un certo modo, dobbiamo imparare a scusarci con noi stessi per questo comportamento ed evitare di ripeterlo in futuro. L’accettazione passa per la comprensione: accettarsi di più sarà la conseguenza del capire che non dobbiamo incolparci di nulla che abbia a che vedere con il nostro aspetto, intelligenza, o qualsiasi nostro comportamento discutibile. La soluzione è portare compassione e comprensione verso ogni pensiero di auto disprezzo verso se stessi, e soprattutto capire che non abbiamo sempre la responsabilità di alcuni avvenimenti. L’autoaccettazione si riferisce al grado in cui siamo capaci di accogliere tutte le parti di noi stessi (sia positive che meno positive) per come sono.  Nelle società occidentali ci viene spesso insegnato che essere duri con noi stessi ci porta ad ottenere dei risultati, motivandoci e misurandoci contro gli altri, attraverso un’autocritica eccessiva, mentre, al contrario è stato dimostrato che la felicità e il benessere personale sono strettamente legati alla capacità di autoaccettarsi incondizionatamente.

In psicologia esiste un fenomeno denominato proiezione, che consiste di riscontrare nel mondo che ci circonda proprio quello che facciamo fatica a riconoscere in noi stessi. Se una persona che fa fatica ad accettarsi probabilmente anche la tendenza a criticare sé stessa va spesso a braccetto con quella a criticare gli altri. Allo stesso tempo, probabilmente sono presenti il timore del giudizio degli altri e la ricerca di approvazione. La paura del giudizio degli altri potrebbe essere una manifestazione subdola della nostra stessa tendenza a giudicare.  E’ come se l’atto di giudicare gli altri ci tornasse indietro attraverso gli altri, facendo il ‘giro largo’.

Ci sono persone che sono talmente abituate a gratificare gli altri o a non dispiacere loro, che con il tempo dimenticano quali sono le proprie stesse preferenze. Tuttavia comportarsi allo scopo di ottenere approvazione crea una dinamica che assomiglia all’amore condizionato di alcuni genitori: sei bravo/ti voglio bene se, a patto che … Tutto ciò lascia in molte persone dei segni che durano nel tempo, delle vere e proprie cicatrici di amore condizionato. Ecco perché c’è bisogno di più accettazione e compassione verso se stessi.

Self Compassion: cos’è la compassione verso se stessi?

Provare compassione significa essere toccati dalla sofferenza degli altri, senza evitare il contatto e senza distaccarsi in modo da lasciar emergere un sentimento di comprensione, gentilezza e desiderio di cura, offrendo un atteggiamento di comprensione non-giudicante nei confronti degli errori che vengono visti nel contesto della condivisione dell’umana fallibilità. Provare compassione nei confronti di se stessi significa essere aperti nei confronti della propria sofferenza, senza evitarla o senza disconnetterci, con il desiderio di alleviarla e di curarci con gentilezza. Può esserci una relazione potenziale tra la compassione verso se stessi e altri aspetti delle ragioni del nostro funzionamento psichico. Comprende anche il guardare con un atteggiamento di non giudizio per le proprie inadeguatezze e i propri fallimenti nel più largo contesto dell’esperienza umana. Anche se molte teorie psicologiche mettono in guardia nei confronti dei pericoli derivanti da un atteggiamento eccessivamente egocentrico, proprio coloro i quali ne soffrono, sono accompagnati da un dialogo interiore aspro e aggressivo nei confronti di se stessi. La compassione nei confronti di se stessi migliora anche la capacità di provare compassione verso gli altri e ne diminuisce il giudizio, proprio perché porta a riconoscere la propria interconnessione e uguaglianza nei confronti degli altri.
Il sentimento di compassione nei confronti di se stessi è simile al sentimento di perdono nei confronti degli altri e ci rende simili, vittime e carnefici, nella reciproca esperienza di fallimento: comprendiamo profondamente noi stessi e il dolore che il nostro comportamento può aver causato. Inoltre quando il nostro viene duramente autogiudicato in una sorta di autoflagellazione che vuole spingerci al cambiamento e al miglioramento, la funzione protettiva dell’ego spesso agisce come un schermo protettivo che riduce la consapevolezza, portando così, come effetto negativo, una perdita di consapevolezza di sé e uno strutturarsi di possibili ripetizioni non consapevoli del comportamento disfunzionale. L’autocritica può condurre ad intense reazioni avversative legate alla resistenza al dolore. Questa risposta si accompagna ad un proliferare di pensieri ruminativi e di affetti negativi come ansia, depressione, angoscia. Nessun cambiamento  è possibile se prima non ci sentiamo sicuri, come dimostrano le ricerche di Porges e il trattamento sul trauma di Pat Ogden: l’atteggiamento di self compassion potrebbe offrire una base sicura che permette di vedere se stessi senza timore, permettendo così lo svolgersi di un processo di transformance basato su una cura di se stessi.

Autocompassione

Gli studi sull’autocompassione dimostrano che essere molto critici con se stessi non ci sprona a dare il meglio come si crede. Ma dobbiamo togliere alla parola compassione certi significati negativi che ha assunto nel corso nel tempo per riportarla al suo significato originale: il desiderio di alleviare uno stato di sofferenza (nostro o di qualcun altro).

Quando siamo distratti, commettiamo più facilmente errori e capita di sentirsi proprio degli incapaci. Ripensando al nostro dialogo interiore in quei momenti, ci si accorge di avere reagito con grande rabbia e stizza. Proviamo a ripetere a noi stessi che sono cose che capitano, ma a prevalere è l’irritazione, il rimprovero, l’aggressione. In questi momenti abbiamo bisogno di una misura correttiva: l’autocompassione. La capacità di essere gentili con noi stessi nelle difficoltà e di considerare errori, imperfezioni e fallimenti come aspetti ineludibili del nostro essere umani. Ciò che pensiamo di noi stessi gioca un ruolo molto importante per il nostro benessere. Per questo gli psicologi si sono concentrate sul modo con cui le persone pensano a loro stesse. Avere autostima significa avere una buona opinione di sé, considerarsi persone capaci, di valore, meritevoli: è una soluzione fondamentale per una vita più felice, più serena e di successo, ha che vedere con il valore, il giudizio. Per avere autostima molti pensano di dover essere sopra la media, per questo si finisce con lo sminuire il valore degli altri. Secondo qualcuno tutta questa enfasi sul concetto di autostima ha portato anche a un aumento del narcisismo.

C’è poi un altro punto critico: le ricerche hanno sempre dimostrato che c’è una relazione tra autostima e successo, ma non è mai stato dimostrato quale è la causa e quale l’effetto tra l’autostima. Ma forse – suggeriscono alcuni psicologi – potrebbe esserci anche un altro modo per stare bene con noi stessi che non debba per forza basarsi su un giudizio di valore e sul successo delle nostre azioni.

Piuttosto dovremmo imparare ad accettare che esiste anche la sorte, che il successo sociale e materiale sono solo una piccola parte del nostro mondo, ma ne esistono anche altre, come l’amore degli affetti passati, quando nei momenti migliori, hanno provato a farcelo sentire, e dei quali possiamo riascoltare le voci interne gentili che conserviamo nei nostri ricordi, incondizionatamente dalle nostre conquiste personali.

Autostima vs compassione per se stessi

L’autostima presuppone delle autovalutazioni sulla bontà della propria performance e della propria importanza e coinvolge anche i pensieri e le valutazioni che supponiamo gli altri abbiano su di noi. Se una bassa autostima si accompagna spesso a disturbi psichici anche seri, pertanto un costrutto interno difficile a cambiare se non a fronte di una serie di risultati positivi che possono sfuggire proprio a coloro che si trovano in una situazione di bassa autostima.
Per tutti questi motivi sono stati introdotti concetti alternativi come “rispetto di se”(Seligman, 1995); autoefficacia (Bandura, 1990), vera autostima (Deci & Ryan 1995).

Un concetto alternativo può essere proprio quello di compassione verso se stessi, ben distinto da quello della pietà. Il sentimento della pietà nasce da una sensazione di superiorità e separazione nei confronti di chi prova dolore, mentre la compassione ha proprio la capacità di aumentare il senso di connessione e interconnessione permettendo un positivo influsso della regolazione interattiva. Spesso la pietà nei confronti di se stessi è anche caratterizzata da una eccessiva identificazione con le proprie ragioni e le proprie motivazioni tanto da diventare inaccessibili alle ragioni degli altri.

Non percorrere la strada della identificazione eccessiva

Quando siamo in questa situazione è necessario fare un passo indietro per poter avere uno spazio mentale in cui il nostro dolore sia insieme a quello degli altri, intendendolo come un ingrediente inevitabile dell’esperienza umana.
Questo può essere considerato un atteggiamento mindfulness, ossia un atteggiamento non giudicante, aperto, recettivo, presente e decentrato, ovvero consapevole del flusso dell’esperienza emotiva e del flusso del tempo. Compassione – e autocompassione – sono temi centrali nel buddhismo ripresi nella medicina occidentale. Basta pensare alla mindfulness da Jon Kabat Zinn in avanti.

Alcuni psicologi hanno messo al centro delle loro attività di ricerca costrutto di compassione. Una delle prime a occuparsi del tema è stata Kristine Neff, che insegna all’università del Texas a Austin. Un altro esperto del tema è Paul Gilbert, professore di psicologia all’Università di Derby (UK) che ha sviluppato una forma di psicoterapia basata sulla compassione e ha scritto un libro dal titolo The Compassionate Mind.

Compassione significa sentirsi toccati dalla sofferenza delle altre persone, desiderando di poterla alleviare con un atteggiamento di gentilezza e apertura . È quello che proviamo quando un amico o una persona cara si trova in difficoltà. È naturale desiderare di alleggerire la sua pena, senza esprimere giudizi. Di compassione ne abbiamo un gran bisogno anche per noi stessi, visto che è proprio con frasi come se l’è cercata che fin troppe persone provano a giustificare fatti di cronaca nera anche molto gravi. Come se fosse naturale che per un errore si debba pagare subendo violenze. Meglio un caldo abbraccio piuttosto che critiche punitive. L’atteggiamento compassionevole verso se stessi comporta avere consapevolezza del problema che stiamo affrontando, evitando di pensare male di noi stessi, criticandoci, rimuginando sulle nostre colpe e farci male due volte duplicando il dolore delle circostanze della vita. Rompendo il senso di isolamento e chiusura in noi stessi che spesso ci accompagna ai momenti di crisi. Riconoscere che anche altre persone sperimentano le nostre stesse difficoltà evita di personalizzare il problema, e il proliferare di pensieri inutili. Compassione e autocompassione ci aiutano a sentirci parte di un tutto, connessi alle altre persone e non disperatamente soli. La nostra cultura occidentale attribuisce grande valore all’individualità, al sé, all’unicità di ogni persona. Forse adesso cominciamo a sentire il bisogno di recuperare tutto quello che al contrario ci rende uguali, connessi, vicini.