Relativismo e universalismo linguistico: linguaggio e pensiero

A cura della Dott.ssa Elisa Gosso

Introduzione

La semiotica ha come oggetto di interesse il segno, “ogni cosa che possa essere assunta come un sostituto significante di qualcosa d’altro” (Eco, 2016, 0.Introduzione, par. 0.1.3).Il segno verbaleè costituito da due facce: una riconoscibile mediantepercezione fisica – la forma fonica o grafica del segno –, e una concettuale – il concetto che quella forma richiama. Esso può entrare in gioco in due modi: la comunicazione e la significazione (ivi, cap. 1). Mentre la comunicazione consiste nell’uso del linguaggio in maniera interrelazionale, la significazione – presupposto della comunicazione – è uncostrutto semiotico autonomo (ivi, 0.Introduzione, par. 0.3), è il funzionamento del segno in autonomia che “alla percezione del destinatario sta per qualcosa d’altro” in virtù del suo essere codice condiviso e del suo essere interpretato (ibid.).

Il processo di significazione è stato rappresentato mediante la figura del triangolo semiotico (Ogden, & Richards, 1946), ai cui vertici sono collocati tre elementiconnessi fra loro: il concetto (dimensione del pensiero,della cognizione), il simbolo – forma – fisicamente percepibile e condiviso,che richiamail concetto (dimensione linguistica),e il referente (dimensione della realtà esterna).

Lo studio delle relazioni che intercorrono fra queste tre dimensioni è stata ed è tutt’oggi oggetto di dibattito interdisciplinare.

Consideriamo l’esempio citato da Cimatti e Paternoster (2015) nelle loro considerazioni sul rapporto tra linguaggio e percezione: se siamo al banco di un fruttivendolo e, vedendo delle mele, chiediamo un chilo di questi frutti, mettiamo in atto un processo di tipo percettivo che, a partire dalla realtà esterna, si traduce in un processo cognitivo di significazione e comunicazione (p. 1). Gli autori, nella considerazione del rapporto ‘mela come oggetto’ / ‘mela come segno linguistico’, domandano: “vediamo un oggetto delimitato spazio-temporalmente, oppure in realtà percepiamo la mela come oggetto perché disponiamo della parola ‘mela’”? (ibid.). Ribaltando la questione: se non disponessimo della parola ‘mela’ sarebbe per noi possibile concettualizzare questo elemento? A questa domanda potremmo attribuire diverse risposte a seconda di diverse soluzioni proposte nel corso degli studi. Di seguito proveremo ad analizzarne criticamente alcune, in prospettiva cronologica, fino ad arrivare alle ipotesi suggerite nel dibattito odierno.

1. Linguaggio uguale pensiero: prospettive relativiste

Prima di addentrarci più in profondità nelle teorie relativiste, è bene specificare che sovente si parla di ‘relativismo linguistico’, sebbene esso possa essere variamente definito come ‘relativismo cognitivo’. Possiamo dire che la seconda espressione incarna entrambe le considerazioni dei rapporti semiotici ‘pensiero-simbolo’ e ‘pensiero-realtà esterna’, dal momento che, con essa, possiamo riferirci sia al valore relativo della lingua sia a quello della dimensione culturale, laddove con relativismo cognitivo culturale si intende “la tesi secondo cui le caratteristiche del nostro sistema concettuale dipendono in larga parte dalla cultura di appartenenza” (Lalumera, 2016, p. 13), ossia sostanzialmente da come gli esseri umani organizzano la propria esistenza in relazione all’ambiente naturale e sociale in cui vivono.

1.1. Basi storiche e concettuali

1.1.1. Determinismi linguistici

Di relativismi linguistici si ipotizzava già in passato: autori come Herder e W. von Humboldt, tra Sette e Ottocento, speculavano sulla stretta relazione fra pensiero e linguaggio, quest’ultimo percepito non solo come frutto del pensiero, ma anche, in direzione opposta, creatore di pensiero. Humboldt (1991) scriveva della lingua come “organo formatore del pensiero” (p. 3), senza tuttavia avere una visione radicale sulla questione. Secondo l’autore, infatti, cambiando lingua è possibile cambiare anche il proprio pensiero: “l’apprendimento di una lingua straniera dovrebbe essere pertanto l’acquisizione di un nuovo punto di vista nella visione del mondo fino allora vigente” (ivi, p. 47).

La questione assunse una veste deterministica nel momento in cui due studiosi, Sapir eil collega e allievo Whorf, ipotizzarono che ogni lingua definisce il sistema di pensiero e di organizzazione del reale in maniera tale che esso risulta incomprensibile rispetto ad altri sistemi.

Whorf (1956) formulò il principio del relativismo linguistico, per cui la lingua influenza totalmente la cognizione, nonché, in conseguenza, la maniera di valutare ed esperire la realtà circostante (ivi, pp. 213-214 e p. 221). L’autore aveva coltol’eredità dell’antropologo Boas, che aveva compiuto una ricerca sul campo presso gli inuit, sollevando poi alcune questionidi carattere fonetico e morfosintattico sulle lingue autoctone.

Boas (1911) citava, fra gli altri, l’esempio della formazione di diverse parole con cui gli inuit esprimono vari stati della neve: aput, la neve sul terreno [snow on the ground]; qana, la neve che cade [falling snow]; piqsirpoq, la neve che da terra viene sollevata dal vento [drifting snow]; qimuqsuq, il cumulo di neve [snowdrift] (pp. 25-26).

Nei suoi scritti Whorf (1956) riprese questo esempio collegandolo ad altre osservazioni –legate in particolare alla lingua nativa americana hopi– ecercando di considerarne le implicazioni cognitive e culturali (p. 216). Secondo tale logica, un inuit penserebbe e percepirebbe la neve, o eventuali altri oggetti e concetti‘linguistico-specifici’, in maniera differente rispetto a un madrelingua italiano.

1.1.2.L’arbitrarietà della lingua è relatività del pensiero?

L’arbitrarietà della lingua è stata riconosciuta come una delle proprietà che caratterizzano il linguaggio verbale umano (Hockett, 1962): tale principio, con le discusse eccezioni (ibid.), asserisce che la relazione tra un elemento significativo del linguaggio e il suo riferimento è indipendente da qualsiasi somiglianza fisica o geometrica tra i due (ivi, p. 8). In effetti, per esempio, non intercorre nessuna somiglianza fisica o ‘relazione naturale’ tra la parola italiana ‘cavallo’ e il suo referente, l’animale che incaselliamo linguisticamente in questo modo.

L’arbitrarietà sussiste per diversi aspetti di un sistema linguistico. Ciò che ci interessa in questa sede è, in particolare, l’arbitrarietà legata all’organizzazione concettuale della realtà in relazione alla lingua, teorizzata dal linguista Hjemslev (1968).Proprio rispetto a questa tipologia di arbitrarietà, infatti, emerge una visione relativista della lingua.

L’autore definisce il linguaggio come “lo strumento con cui l’uomo forma pensieri e sentimenti, stati d’animo, aspirazioni, volizioni e azioni, lo strumento con cui influenza e con cui è influenzato”(ivi, p. 5). Nella sua prospettiva strutturalista, Hjelmslev osserva che tutte le lingue hanno in comune la necessità di ordinare e articolare il pensiero e il senso, che si presentano, scrive l’autore, come una massa amorfa (ivi, p. 56).

Ognuna però lo fa in maniera differente: ciascuna lingua, infatti, mette ordine in questa massa informe del pensiero e dà struttura e sostanza al senso attraverso criteri propri e specifici (ibid.). Hjelmslev cita, fra gli altri, un confronto fra i sistemi linguistici danese, tedesco e francese: laddove un francese distingue, per esempio, fra bosco – bois – e foresta – forêt –(come un italiano) e percepisce la differenza, un tedesco o un danese non lo fanno, usando una sola parola – Wald, skov – per identificare tali zone di senso (ivi, p. 59).

2. Pensiero uguale linguaggio: prospettive universaliste

Per contro alla prospettiva relativista esiste una corrente universalista che ha prodotto una serie di teorie. Anche in questo caso non si può parlare di una vera e propria scuola di pensiero. Gli autori che hanno operato in questa prospettiva sono accomunati dalla condivisione dell’assunto per cui non è possibile affermare che la lingua definisce il modo di pensare e concettualizzare i fatti che ci circondano, perché, nonostante le ovvie differenze fra le lingue, esistono caratteristiche comuni, universali e innate, che sussistono per ogni sistema linguistico.

2.1. Grammatica universale

Alla fine degli anni Cinquanta del Novecento, Chomsky avanzò un’ipotesi innatista attinente alle origini e all’apprendimento del linguaggio, che andava al di là deivari sistemi linguistici. Alle singole grammatiche specifiche sottende, secondo l’autore (2006), una grammatica universale indipendente da ogni lingua particolare (p. 106), che guida il nostro apprendimento linguistico sin dall’infanzia e la nostra capacità di fare lingua in maniera potenzialmente infinita e creativa.

L’autore la definisce ‘grammatica trasformazionale-generativa’, poiché genera un insieme di regole e descrizioni strutturali fondamentali per l’uso del linguaggio e per la mediazione fra suono (o grafia) e significato (pp. 91-92). Tale strumento è universale e innato, poiché costituisce il frutto della dotazione biologica e cognitiva degli esseri umani. L’autore osserva infatti che i dati linguistici che abbiamo a disposizione da piccoli sono piuttosto limitati rispetto alla gamma di frasi che possiamo comprendere velocemente e produrre in modo appropriato (ivi, p. 100).

Il fatto che gli esseri umani riescano a ‘fare lingua’ anche in assenza di stimoli diretti è spiegabile proprio perché deteniamo un dispositivo di acquisizione del linguaggio (ivi, p. 99), una facoltà cognitiva basata sulla struttura organica del nostro cervello.

2.2. Colori universali

È piuttosto celebre la teoria legata alla denominazione dei colori elaborata da Berlin e Kay negli anni Sessanta del XX secolo, secondo cui esiste un modello universale con cui tutte le lingue del mondo organizzano verbalmente e concettualmente lo spettro cromatico.

Gli autori (1969) si basarono sudati raccolti in una ricerca condotta mediante una tavola di tasselli con diversi colori e diverse tonalità cromatiche, intervistando parlanti di venti lingue diverse e registrando solamente le denominazioni base dei colori (per es. non ‘turchino’ ma ‘blu’).

Essi osservarono che non è possibile che ogni lingua segmenti il continuum cromatico in maniera arbitraria e indipendente, poiché esiste un ‘inventario universale completo’ (ivi, p. 2) che va da un minimo di due colori (bianco e nero) a un massimo di undici (rosso, verde, giallo, blu, marrone, viola, rosa, arancione, grigio).

Berlin e Kay inquadrarono questa categorizzazione in un’ottica evolutiva in crescendo: alcuni sistemi linguistici detengono solo termini corrispondenti a bianco e nero, quelli che ne detengono tre avranno bianco, nero e rosso, ecc. Gli autori conclusero che, nonostante le lingue analizzate appartenessero a famiglie linguistiche anche distanti fra loro (ivi, p. 7), le terminologie di colore ricorrevano: i risultati raccolti confermerebbero dunque l’ipotesi dell’universalità linguistica, dal momento che la categorizzazione dei colori non è casuale e i punti focali dei termini cromatici di base sono simili in tutte le lingue (ivi, p. 10). 

Conclusioni

La visione del colore è sicuramente un fatto biologico e universale, a meno di compromissioni e alterazioni individuali: da un lato ci sono gli occhi, in cui coni e bastoncelli della retina intervengono come fotorecettori, dall’altro il cervello, che elabora gli impulsi ricevuti dall’occhio disponendoci a percepire gli stimoli luminosi come colori specifici.

Tuttavia, come notano Cicchetti e Pignato (1999), la percezione del colore è ulteriormente influenzata da “componenti culturali, in particolare simboliche, che portano ad attribuire ai colori particolari significati analogici e a privilegiarne alcuni rispetto ad altri, a cominciare dal bianco e nero, analoghi di luce e ombra” (“Introduzione”) e l’esperimento di Berlin e Kay, condotto in maniera decontestualizzata, non aveva tenuto conto di tali simbologie.

Turner (1982), per esempio, analizzando l’intricata simbologia della tripartizione cromatica ‘rosso-bianco-nero’ presso gli Ndembu dello Zambia, e confrontandola con quella di altre popolazioni, osserva che queste classificazioni non si ‘limitano’a rappresentare lo spettro cromatico così come percepito, ma racchiudono interi ambiti di esperienza fisica, cognitiva e sociale (p. 91; cfr. anche Cardona, 2006).

D’altro canto, l’ipotesi relativista, almeno nella sua veste deterministica, è stata messa in discussione da più parti. Tra gli anni Ottanta e Novanta, Martin (1986) e Pullum (1989) hanno risollevato la questione del ‘senso della neve’ inuit, osservando come, sulla base di una osservazione puramente linguistica – Boas citava infatti ‘semplicemente’ esempi di morfologia derivazionale – sia stato costruito un vero e proprio mito per cui gli abitanti dell’estremo nord del pianeta concepirebbero mentalmente la neve in maniera diversa rispetto agli altri esseri umani.

Successivamente, il paradigma relativista è stato rivalutato, giungendo a una sorta di compromesso, che potremmo definire come un relativismo temperato (cfr. Gumperz, & Levinson, 1996). Secondo la nuova prospettiva il linguaggio influisce sul pensiero, ma solo in specifiche circostanze e mai in maniera determinante: si possono acquisire nuovi schemi mentali passando da un sistema linguistico ad un altro.

Di recente, inoltre, alcuni studi hanno messo in dubbio l’ipotesi innatista che vede nella dotazione biologica e genetica degli esseri umani l’unico fondamento di questi meccanismi, ponendo in luce il valore dell’esperienza e dell’ambiente (cfr. Liberman, 2016).

Nuove frontiere si sono aperte nel mondo delle scienze cognitive. Il paradigma definito 4E Cognition, per esempio, seppur con i suoi limiti e complessità (Carney, 2020), sostiene che la cognizione non avviene esclusivamente nell’ambito del cervello e della mente, ma detengono notevole importanzagli elementi e i processi esterni. ‘4E’ sta per embodied, embedded, enacted,extendend (Newen, De Bruin, & Gallagher, 2018).

La cognizione può essere incarnata, incorporata, enattivao estesa nel momento in cui si relaziona con e sfrutta il corpo e l’ambiente fisico e socio-culturale in maniera casuale o causale nell’atto del pensiero. Alcune prospettive sorte da questo paradigma, come la WAT theoryWords as Social Tools (Borghi, & Binkofski, 2014) – hanno sollevato l’attenzione sull’eventuale ruolo funzionale che il linguaggio verbale deterrebbe nella concettualizzazione (cfr. Dove, 2022).

Bibliografia e sitografia

  1. Boas, F. (1911). Introduction. In Id. (Ed.), Handbook of American Indian Languages. Part 1 (pp. 1-83). Smithsonian Institution, Bureau of American Ethnology.
  2. Borghi, A., & Binkofski, F. (2014). Words as Social Tools: An Embodied View on Abstract Concepts. Springer.
  3. Cardona, G. R. (2006). Introduzione all’etnolinguistica. UTET (I ed. 1976).
  4. Carney, J. (2020). Thinking avant la lettre: A Review of 4E Cognition. Evolutionary Studies in Imaginative Culture, 4(1), pp. 77-90.
  5. Eco, U. (2016). Trattato di semiotica generale [Kindle]. La nave di Teseo (I ed. cartacea 1975).
  6. Gumperz, J. J., & Levinson, S. C. (Eds.) (1996). Rethinking Linguistic Relativity. Cambridge University Press.
  7. Hjelmslev, L. T. (1968). I fondamenti della teoria del linguaggio. Giulio Einaudi (ed. or. 1943). 
  8. Hockett, C. F. (1962). The problem of universals in language. In Greenberg, J. H. (Ed.), Universals of Language (pp. 1-22). MIT Press.
  9. Humboldt, W. von (1991). La diversità delle lingue (D. Di Cesare, Cur.). Laterza (ed. or. 1836).
  10. Lalumera, E. (2016). Che cos’è il relativismo cognitivo. Carocci (I ed. 2013).
  11. Lieberman, P. (2016). La specie imprevedibile. Che cosa rende unici gli esseri umani. Carocci (ed. or. 2013).
  12. Martin, L. (1986), “Eskimo Words for Snow”: A Case Study in the Genesis and Decay of an Anthropological Example. American Anthropologist, 88(2), pp. 418-423.
  13. Newen, A., De Bruin, L.,& Gallagher, S. (2018).4E Cognition. Historical Roots, Key Concepts, and Central Issues. In Id. (Eds.). The Oxford Handbook of4E Cognition. Oxford University Press (pp. 3-15).
  14. Ogden, C. K., &Richards, I. A. (1946).The Meaning of Meaning. A Study of the Influence of Language upon Thought and of the Science of Symbolism, Harcourt, Brace & World, Inc. (nuova ed.).
  15. Pullum,G. K. (1989), The Great Eskimo Vocabulary Hoax. Natural Language and Linguistic Theory, 7, pp. 275-281.
  16. Turner, V. (1982). The Forest of Symbols. Cornell University Press (I ed. 1965).
  17. Whorf, B. L. (1956). Language, Thought, and Reality. Selected Writings of Benjamin Lee Whorf (J. B. Carroll, Ed.). MIT Press.