IMPLICAZIONI POSITIVE DELLA MINDFULNESS NELLA GESTIONE DELLO STRESS

A cura di Cinzia Rondoni

Grazie ad un aumento progressivo di pubblicazioni e letteratura scientifica in merito, la Mindfulness sta conquistando sempre più spazio nell’ambito psicologico. 

L’obiettivo di questo articolo è quello di cercare di dare una spiegazione quanto più esaustiva possibile di cosa sia la Mindfulness, le sue origini, l’aspetto applicativo in ambito psicologico e benessere psicofisico, nonché i notevoli benefici che tale pratica apporta alla gestione dello stress nei vari contesti di vita. 

Nell’immaginario collettivo la Mindfulness viene concepita come una semplice tecnica di rilassamento o meditativa finalizzata a “liberare la mente” e “smetter di pensare”. Pretendo da quelle che sono le definizioni fornite dai maggiori esperti e pionieri della pratica, cercheremo di capire cosa sia realmente e perché venga sempre più utilizzata in ambito terapeutico (e non solo) per contribuire al benessere psicologico personale percepito, nonché collettivo. Ruth A. Baer docente di Psicologia alla University of Kentucky a Lexington, KY e ricercatrice sulla mindfulness e sui processi a essa correlati ne dà la seguente definizione: “Chiamiamo con il termine “Mindfulness” un insieme di azioni che riguardano molteplici aspetti del funzionamento mentale e che possono ricondursi tutte al loro effetto ultimo che consiste, approssimativamente, nella capacità di stare nel presente” (Baer, R. A., 2012)1 Jon Kabat-Zinn (New York, 5 giugno 1944), biologo e scrittore statunitense, Professore Emerito di Medicina e fondatore della Stress Reduction Clinic e del Center for Mindfulness in Medicine, Health Care and Society presso la University of Massachusetts Medical School, oltre ad essere insegnante di Mindfulness, è considerato il padre di tale disciplina in ambito scientifico. Creatore del programma MBSR (Mindfulness-Based Stress Reduction), grazie ai suoi numerosi libri articoli scientifici ha diffuso nel panorama clinico e accademico gli aspetti teorici e applicativi della disciplina. Per lo studioso Mindfulness significa: “Prestare attenzione con intenzione, al momento presente, in modo non giudicante”. Vivere l’esperienza del momento, nel qui e ora.”

Cenni sul costrutto

Il costrutto della mindfulness che trova le sue origini nella filosofia buddista, emerge all’attenzione della cultura occidentale circa un secolo fa grazie al traduttore inglese Rhys David. Lo studioso, durante un’analisi dei testi buddhisti per conto della Buddihism Text Society, utilizzò la parola mindfulness per tradurre il termine in lingua pali sati. Il termine sati, attribuito agli insegnamenti del Buddha, viene tradotto a livello letterale come “ricordo” o “memoria” in riferimento ad una profonda consapevolezza derivante da una “particolare predisposizione del cuore”.

La traduzione più comune viene affidata ad espressioni quali concentrazione, attenzione, sviluppo della mente, consapevolezza, nuda attenzione (Gethin, 2011; Mace, 2007; Wallace, 2006).

Le pratiche meditative della mindfulness permettono di sviluppare una piena consapevolezza di tutto ciò che ci circonda e di ciò che emerge all’interno dell’individuo, inclusi pensieri, sensazioni ed emozioni. Essa aiuta a rendersi consapevoli della natura transitoria di queste esperienze.

Il comprendere la transitorietà degli eventi e delle cose permette di riconoscere che stati mentali, emozioni e tutto ciò che possediamo o ci accade non definisce profondamente e definitivamente chi siamo.

Raggiungendo la consapevolezza che nulla è eterno, si abbandona la visione della realtà come composta da entità separate, avvicinandosi alla perfezione assoluta (Mace, 2008).

A questo livello di pratica, la mente dell’individuo è in grado di non discriminare tra soggetto che esperisce e oggetto di conoscenza (Nhat Hanh, 1976).

La mindfulness è intesa come un modo di vivere consapevole e autentico, mantenuto prestando attenzione a ogni respiro, movimento, pensiero e ad ogni elemento che si presenta nell’esperienza dell’individuo (Rosenberg, 1998).

A partire dagli anni ’60, l’interesse per le pratiche meditative ha iniziato a diffondersi anche all’interno della psicologia clinica. Gli psicologi hanno riconosciuto le potenzialità di queste pratiche nel promuovere la consapevolezza nei pazienti, con significative ripercussioni sul loro benessere (Keng, Smoski , & Pettirossi, 2011). È poi negli anni ’70, con la formulazione del programma Mindfulness-Based Stress Reduction (MBSR) da parte di Jon Kabat-Zinn, che nasce il primo intervento strutturato basato sulla consapevolezza. Questo programma viene presentato alla comunità scientifica come uno strumento efficace per la gestione del dolore (Kabat-Zinn, 1982). Da allora, la ricerca sulle pratiche di mindfulness e sui loro effetti è proliferata, estendendosi a diverse popolazioni e ambiti di intervento. Questo ha portato alla nascita di numerose pratiche cliniche orientate alla consapevolezza, come la Dialectical Behavior Therapy (Linehan, 1993), la Acceptance and Commitment Therapy (Hayes, Strosahl, & Wilson, 1999) e la Mindfulness-Based Cognitive Therapy (Segal, Williams, & Teasdale, 2002).

Il ruolo fondamentale della mentalizzazione 

Con il termine mentalizzazione ci si riferisce in psicologia alla capacità di comprendere e interpretare i propri stati mentali e quelli degli altri, come pensieri, emozioni, desideri e intenzioni. Questa abilità permette di dare senso ai comportamenti e di prevedere le reazioni in base alla comprensione delle dinamiche mentali3 .

Tale costrutto prende forma dall’incontro tra la “Teoria della Mente” 4 , proveniente da ambiti come la psicologia evolutiva, l’etologia e la filosofia, e le teorie psicoanalitiche. Basandosi su contributi teorici di studiosi come Klein, Winnicott, Bion e Bowlby, la capacità di mentalizzare viene interpretata come il risultato dell’evoluzione dell’individuo, piuttosto che come una proprietà innata della mente. Il concetto di mentalizzazione deriva dalla funzione del Sé Riflessivo (Fonagy, 1991), che riguarda la consapevolezza degli stati mentali propri e altrui e la capacità di riconoscere l’influenza reciproca tra stati mentali e comportamento. Attribuire stati mentali come intenzioni e sentimenti ai comportamenti li rende significativi e prevedibili, facilitando un’interazione più sicura con il mondo (Baron-Cohen, Tager-Flusberg & Cohen, 1993; Morton & Frith, 1995).

Questa funzione riflessiva si sviluppa nel contesto di una relazione primaria che fornisce gli strumenti per regolare gli affetti (Bretherton, Bates, Benigni, Camaioni, & Volterra, 1979; Main, 1991).

Al fine di comprendere come il costrutto di mentalizzazione possa essere collegato a quello di mindfulness, è utile esaminare le concettualizzazioni di Main sulla metacognizione (1991). Secondo Main, l’atteggiamento riflessivo verso l’esperienza implica la metacognizione, che permette di vedere gli stati mentali come semplici rappresentazioni possibili della realtà. Fonagy amplia le concettualizzazioni di Main, includendo l’attenzione verso gli stati mentali altrui nella sua definizione di metacognizione. Egli definisce il mentalizzare non solo come un atteggiamento riflessivo sulla propria esperienza mentale, ma come una comprensione generale delle menti (Fonagy et al., 2002). La capacità metacognitiva consente di riconoscere la natura transitoria dei propri stati mentali e di non identificarsi con essi. La mente mentalizzante comprende che il vissuto soggettivo nasce dal fluire della comprensione e dell’interpretazione degli eventi, e si caratterizza per la sua flessibilità, prevedendo l’esistenza di punti di vista diversi dal proprio e permettendo così di adottare prospettive multiple (Main, 1991).

David J. Wallin (2007) pone le sue considerazioni su queste idee, radicandosi nelle teorie dell’attaccamento. Wallin sostiene che esistono aspetti comuni tra il costrutto di mindfulness e quello di mentalizzazione, e che tra i due vi sia un’influenza causale. Secondo l’autore, mentalizzazione e mindfulness sono processi distinti ma strettamente correlati, entrambi fondamentali per comprendere gli stati mentali e basati sulla costruzione psicologica dell’esperienza soggettiva. Wallin (2007) evidenzia che entrambi i costrutti accrescono il senso di sicurezza personale. Nell’interazione tra bambino e caregiver, il rispecchiamento aiuta il bambino a riconoscere e riflettere sugli stati mentali, sviluppando una sicurezza interna profonda (Kohut, 1971).

La pratica della mindfulness, attraverso la meditazione, genera sicurezza, coerenza interna, accettazione di sé e una propensione all’altruismo (Mace, 2008). Entrambi i processi promuovono l’integrazione tra emozioni e pensieri, assicurando un’esistenza piena e significativa, e migliorano la gestione delle relazioni interpersonali (Siegel, 2007).

Come la mindfulness influisce sul benessere personale e sulla gestione dello stress

Le recenti ricerche in neurobiologia interpersonale, condotte da D.J. Siegel, hanno dimostrato che la pratica della consapevolezza attraverso la meditazione mindfulness può portare a notevoli benefici per il benessere personale. 

Le maggiori implicazioni positive sono riscontrate nei seguenti ambiti: 

  • Riduzione delle tensioni fisiche e nervose. 
  • Modificazione dell’intensità di sintomi emotivi come ansia, depressione, rabbia, tristezza e panico. 
  • Interruzione della produzione di pensieri negativi. 
  • Generazione di pensieri assertivi e favorevoli al benessere psicologico. 
  • Attribuzione di nuovi significati all’esperienza emotiva e relazionale. 
  • Familiarizzazione con la trasformazione e il cambiamento. 
  • Influenza positiva sulle abitudini e modalità relazionali. 
  • Ripristino dell’equilibrio psicofisico in situazioni di stress.

Ciò accade poiché, dal punto di vista neurobiologico, la pratica della mindfulness, focalizzando costantemente l’attenzione sulle emozioni, i pensieri e gli stimoli ambientali, è in grado di interrompe i cortocircuiti emozionali dannosi che si attivano involontariamente in condizioni di disagio, sovraccarico e stress. Al contrario, la consapevolezza del proprio stato mentale, anche se negativo, permette di intraprendere spontaneamente i cambiamenti necessari per migliorare il proprio stato di salute. Meditare significa attivare il cervello e i pensieri. Daniel Siegel afferma infatti che “il semplice atto di prestare attenzione al nostro stato fisico e psicologico ci mette in condizione di interrompere la chimica delle emozioni negative, ossia il cortocircuito cerebrale che alimenta tensione, confusione e dolore fisico e psicologico, e ci permette di attivare i circuiti nervosi in disuso che generano benessere e salute”. “Inoltre, quando prestiamo attenzione al nostro stato mentale e fisico attraverso la pratica della mindfulness, diventiamo capaci di intraprendere i necessari cambiamenti per migliorare le nostre condizioni di vita, le nostre emozioni e le nostre modalità relazionali”.

Modalità di meditazione e gli aspetti neuorobiologici sottostanti

Dal punto di vista dei processi mentali dunque, la mindfulness si concretizza nel prestare attenzione, nel momento presente, a quattro elementi: il proprio corpo, le percezioni sensoriali (fisiologiche, fisiche e psicologiche, appartenenti ai domini del piacevole, spiacevole, misto e neutro), le formazioni mentali (come rabbia, dolore o compassione) e gli oggetti della mente (ogni formazione mentale è associata a un oggetto, per esempio, si è arrabbiati con qualcuno o per qualcosa). L’osservazione di questi elementi della propria esperienza soggettiva avviene in uno stato di autentica calma non reattiva, accettando ciò che viene osservato per quello che è. Questo atteggiamento consente ai cambiamenti di avvenire naturalmente, senza ostacolarli né promuoverli, evitando la solita resistenza o il giudizio che causano ulteriore sofferenza.

Alcune pratiche comuni nella mindfulness includono: 

  • Meditazione del respiro: Osservare il proprio respiro, concentrandosi su di esso e rimanendo consapevoli di ciò che accade mentre si respira. 

  • Body scan: Eseguire una rotazione sistematica dell’attenzione nelle varie parti del corpo, “sentendo” autenticamente ogni parte e soffermandosi su ciascuna di esse.

La mindfulness può essere praticata sia da seduti (sitting meditation) che camminando (walking meditation). 

  • Meditazione da seduti: Assumere una posizione seduta dignitosa, su una sedia, un panchetto da meditazione o a terra con un cuscino. 

  • Meditazione camminata: Adatta a persone particolarmente agitate come preparazione alla meditazione da seduti, consiste nel coltivare l’osservazione interna e la consapevolezza delle sensazioni mentre si cammina, concentrandosi su ciascun passo.

La pratica costante della mindfulness si è dimostrata efficace nella riduzione dello stress e delle patologie correlate, nel sollievo dei sintomi fisici associati a malattie organiche e, in generale, nella promozione di profondi e positivi cambiamenti nell’atteggiamento, nel comportamento e nella percezione di sé stessi, degli altri e del mondo.

Taren e colleghi (2015) hanno dimostrato che tre giorni intensivi di meditazione mindfulness possono ridurre l’attivazione del circuito neurale “amigdala destracorteccia cingolata anteriore” in un campione di 35 adulti disoccupati con elevati livelli di stress. Questo circuito neurale funziona come un radar emotivo, attirando l’attenzione su elementi nuovi, incerti o importanti, e agisce come un sistema di avvertimento precoce del cervello, monitorando eventi emotivamente rilevanti, soprattutto quelli potenzialmente minacciosi. Di conseguenza, è strettamente collegato alla formazione dello stress. Sebbene lo stress possa aumentare la connettività funzionale a riposo di questo circuito neurale, un breve periodo di training mindfulness può invertire questo effetto, almeno a breve termine.

Hauswald (2015) ha mostrato che meditatori esperti possono modulare volontariamente il loro stato di coscienza e attenzione. Durante la meditazione, anche con gli occhi aperti, si osserva un aumento delle onde Alpha, che aumentano in ampiezza e diminuiscono in frequenza con il progredire della sessione. Le onde Alpha, che vanno dagli 8 ai 13,9 hertz, sono tipiche della veglia ad occhi chiusi e dei momenti precedenti l’addormentamento. Nella fase finale della meditazione, i ritmi delle onde Theta, che vanno dai 4 ai 7,9 hertz e caratterizzano gli stadi 1 e 2 del sonno REM, si modificano principalmente nei meditatori con molti anni di esperienza.

Analogamente, Luders (2012) ha indagato gli effetti cerebrali della meditazione in relazione agli anni di pratica. I risultati indicano che anni di meditazione aumentano lo spessore e potenziano i lobi frontali, in particolare la corteccia prefrontale mediale. Questa area interagisce con il cervello emotivo (sistema limbico) e il cervello rettiliano (rinencefalo), favorendo l’integrazione delle loro funzioni. Le modifiche cerebrali avvengono tramite pieghe corticali o “girificazioni”, che migliorano l’elaborazione neurale. Maggiore è il numero di girificazioni, maggiore è l’efficienza del cervello nell’elaborare informazioni, prendere decisioni e migliorare la memoria.

Luders ha trovato inoltre una correlazione positiva tra anni di meditazione e quantità di piegature corticali: maggiori girificazioni si osservano nei meditatori rispetto ai non meditatori, e aumentano con gli anni di pratica. Hauswald (2015) ha inoltre dimostrato che la meditazione può ridurre la perdita di materia grigia associata all’invecchiamento. Le analisi della risonanza magnetica hanno rivelato un aumento di materia grigia nell’ippocampo sinistro, nella corteccia cingolata posteriore, nella giunzione temporo-parietale e nel cervelletto nel gruppo che ha seguito il programma Mindfulness-Based Stress Reduction (MBSR). Questi risultati suggeriscono che la partecipazione al programma MBSR è associata a cambiamenti nella concentrazione di materia grigia nelle regioni coinvolte nei processi di apprendimento e memoria, processi auto-referenziali e decisionali.

Questi studi dimostrano come le neuroscienze, utilizzando strumenti come la risonanza magnetica e l’elettroencefalogramma, possano chiarire il ruolo delle pratiche meditative, come la mindfulness, sul cervello dei praticanti. A tal proposito, è emersa una nuova branca delle neuroscienze focalizzata sulla mindfulness, con Norman Farb come uno dei pionieri, grazie al suo contributo “Mindfulness meditation reveals distinct neural modes of self-reference” del 2007. Questa ricerca approfondisce la portata delle pratiche mindfulness sull’essere umano da un punto di vista sperimentale e scientifico.

NOTE

1 Baer, R. A., & Maffei, C. (Eds.). (2012). Come funziona la mindfulness: teoria, ricerca, strumenti. Cortina.

2 Kabat-Zinn, J. (2020). Vivere momento per momento: sconfiggere lo stress, il dolore, l’ansia e la malattia con la mindfulness. TEA-Tascabili degli Editori Associati.

3 Concettualizzazione più recenti Bateman e Fonagy (2004). 

4 La teoria della mente è la capacità di comprendere e attribuire stati mentali come credenze, intenzioni, desideri, emozioni e conoscenze a sé stessi e agli altri. Questa abilità consente di prevedere e interpretare i comportamenti altrui sulla base della comprensione che queste azioni sono guidate da pensieri e sentimenti interni. La teoria della mente è fondamentale per la socializzazione e la comunicazione efficace, permettendo di navigare nelle interazioni sociali con maggiore comprensione e empatia.

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