Il rapporto cervello-mente-cultura: un’introduzione alle ipotesi sulle origini della cultura

A cura di Elisa Gosso
INTRODUZIONE
A partire dalla definizione del concetto scientifico-antropologico di cultura e dalle sue implicazioni sociali, l’articolo intende proporre un’analisi del dibattito relativo alle origini della cultura e al suo rapporto dualistico con il concetto di ‘natura’: natura in senso lato, “il fondamento dell’esistenza nella sua configurazione fisica e nel suo divenire biologico” (“Natura”, 1976, p. 1479), ma anche e soprattutto la natura più strettamente umana, nei termini della dimensione fisico-organica dell’essere umano – in particolare il cervello, l’organo più al ‘al confine’ fra natura e cultura.
Prima di ricevere una contestualizzazione scientifica, la nozione di cultura prende ufficialmente forma nell’ambito della classicità romana, laddove il verbo latino colre, ‘coltivare’, viene metaforicamente esteso dapprima alla sfera del religioso (coltivare il legame con la divinità) e, in seguito, alla sfera della formazione intellettuale della persona.
Nel secondo libro delle Tusculanae disputationes Cicerone, riflettendo sulle virtù della filosofia, afferma che essa è la coltivazione (cultura) dell’anima (II, 13), ponendo le basi per quella che sarà una concezione della cultura di tipo classico e normativo, come erudizione individuale (cfr. Rossi, 1983).
Nel periodo umanistico, la rappresentazione della cultura si allarga gradualmente, estendendosi dal singolo – dal processo di ‘coltivazione’ della mente individuale al fine di elevarla – all’intero corpo sociale: si tratta ormai di quei ‘costumi’ e di quello ‘spirito’ collettivi citati da Voltaire nel suo Essay sur l’histoire générale et sur le moeur et l’esprit des nations (cfr. Rossi, 1975, par. 1).
Nel clima positivista tardo ottocentesco il campo che circoscrive la nozione si amplia ulteriormente, includendo la relazione fra cultura e natura e la definizione dell’essere umano in quanto unico detentore di cultura. È allora che la dicotomia oppositiva ‘cultura-natura’ viene idealizzata nei termini di un “costrutto culturale” (Remotti, 2014, cap. II par. 1).
1. Alle origini della cultura nelle scienze sociali
Sulla base di questo sostrato teorico nascerà la concezione scientifica della cultura, di cui la celebre definizione dell’antropologo evoluzionista E. B. Tylor costituisce uno dei fondamenti delle scienze antropologiche: la cultura, afferma Tylor (1920), colta nel suo ampio senso etnografico, è quel complesso insieme che include conoscenze, credenze, arte, morale, legge, costume e ogni altra capacità o abitudine acquisita dagli esseri umani in quanto membri di una società (vol. I, p. 1).
Come fa notare Remotti (1993), una differenza decisiva tra la concezione classica della cultura e quella antropologica sta nella non esclusività di quest’ultima: mentre la prima è appannaggio di pochi intellettuali, la seconda, si estende a qualunque tipo di società in qualunque parte del mondo (pp. 36-37). L’approccio di Tylor è comunque frutto del suo tempo.
Se ogni società umana è dotata di una qualche forma di cultura, l’evoluzionismo pone in luce le differenze che intercorrono tra i diversi gruppi umani a livello di inferiorità o superiorità culturale. Nel delineare la somiglianza generale della natura umana e dei modi di vita (Tylor, 1920, vol. I, p. 6), lo studioso individua d’altro canto tre stadi di sviluppo culturale che le ‘razze’ umane hanno attraversato, o sono in procinto di attraversare, a partire da quello selvaggio e da quello barbaro, proprio delle società primitive e di cui farebbero ancora parte le società extraeuropee, giungendo al culmine dell’evoluzione con lo stadio civilizzato, proprio della società moderna occidentale (ivi, vol. I, p. 26 e seg.).
In questa prospettiva, l’indagine sulle popolazioni extraeuropee contemporanee costituisce una sorta di macchina del tempo: gli Europei, scrive Tylor, possono trovare fra i Groenlandesi o i Maori molte caratteristiche appartenute ai loro antenati, arrivando così a ricostruire il proprio passato mediante l’osservazione di moderni primitivi (ivi, vol. I, p. 21). Questi stadi di sviluppo sono progressivi e l’evoluzione così definita da Tylor si fonda su una base cognitiva (Malighetti, 2001, p. 775), per cui allo sviluppo cerebrale e intellettivo corrisponderebbe un parallelo sviluppo culturale.
2. L’essere umano fra natura e cultura
2.1. La tassonomia linneiana del genere homo
Una delle prime classificazioni di tipi umani fra natura e cultura è quella risalente alle speculazioni del botanico Linneo, che nel suo Systema Naturae – dapprima nell’edizione del 1735 e in seguito, con alcune aggiunte, nel 1758 –, introdusse l’essere umano fra gli altri animali, nella tassonomia dei primati, individuando sei presunte categorie di homo, due dette ‘anormali’ e quattro ‘normali’. I ‘selvatici’ (ferus) si definiscono come uomini privi di civiltà nel senso lato del termine, più vicini al mondo animale che a quello umano, come gli enfants sauvages, bambini abbandonati e cresciuti privi di socializzazione e linguaggio, di cui le più antiche testimonianze risalgono almeno al periodo medievale (cfr. Meschiari, 2015). La categoria ‘mostruosa’ racchiude invece uomini portatori di forme considerate devianti in termini fisici e psichici, con eventuali malformazioni congenite o deficit cognitivi. Seppur Linneo non abbia mai citato esplicitamente il concetto di ‘razze’ umane (cfr. Müller-Wille, 2014), tra i cosiddetti normali egli elenca quegli idealtipi che forniranno in seguito una base per la definizione del razzismo scientifico ottocentesco, associando tratti fisici a tratti psicologico-cognitivi, caratteriali e attributi socio-culturali, sulla base della teoria umorale ippocratica: americani (rossi, capelli folti e scuri e narici grandi, collerici, diretti, amanti della libertà), europei (bianchi, capelli e occhi chiari, muscolosi, vitali, ingegnosi), asiatici (giallastri, capelli e occhi scuri, melanconici, altezzosi), africani (neri, capelli scuri e nasi piatti, labbra grandi, flemmatici e pigri).
2.2. Le teorie del razzismo scientifico ottocentesco
È proprio da questo periodo che il pensiero razzista eurocentrico si consolida attraverso l’attribuzione di un fondamento scientifico alla contrapposizione di specie umane superiori e inferiori. A partire dall’Ottocento l’interesse di vari studiosi si orienta verso la ricerca delle origini dell’umanità e la sua storia naturale, scientificizzando la pratica dell’antropometria (misurazione delle parti del corpo) allo scopo di classificare le razze umane.
Oltre alla differenza nella pigmentazione della carnagione, l’attenzione si estende ora su altre parti del corpo relazionate a specifiche attitudini e costumi, quali l’angolo facciale e il volume del cranio, nonché le dimensioni del cervello, direttamente correlate con l’intelligenza e l’evoluzione socio-culturale (cfr. Mazzolini, 2003; Mazzolini, 2014). Craniometrie e antropometrie, incentivate dall’antropologia positivista – in particolare da Paul Broca e colleghi (cfr. Conklin, 2013, pp. 19-57) –, vanno scemando, fra alti e bassi, intorno al secondo dopoguerra, quando si diffondono ampie critiche al concetto di razza nel clima generale dell’epoca, in conseguenza all’emanazione delle leggi razziali.
Nel 1950 viene approvato a Parigi il primo documento dell’Unesco sulla questione razziale, che critica l’utilizzo del concetto di razza in termini socio-culturali e deterministi, pur non escludendo ancora una definizione razziale in termini fisici (“The Race question”, 1950). Il documento verrà in effetti rivisto più volte fino agli anni Settanta, perché nella prima stesura collegava ancora la definizione razziale ai caratteri fisico-anatomici delle popolazioni umane: come ha ampiamente dimostrato Cavalli-Sforza (1996), gli studi di genetica hanno invece individuato, tutt’al più, gruppi di persone con affinità genetiche che non corrispondono affatto alle varie tipologie di razza plasmate nel corso del tempo.
Come osserva ancora Cavalli-Sforza, quando si pensa all’evoluzione dell’umanità, sovente si crede che ci si occupi di crani, scheletri e cervelli, che è vero, ma solo in parte: nello studiare l’ominazione, non si può prescindere dal rivolgere l’attenzione a entrambi gli aspetti che caratterizzano l’umanità, natura e cultura, nelle loro molteplici interazioni (ivi, pp. 6-7). Nell’ambito dell’antropologia socio-culturale, alcuni autori hanno tentato di fornire una spiegazione alla dotazione culturale dell’essere umano, oscillando proprio fra questi due concetti. Vedremo, di seguito, i punti principali toccati dalle teorie classiche che sono state elaborate per trovare una risposta alle origini della cultura.
3. È nata prima la ‘mente’ o la cultura?
3.1. Cultura dopo natura
Nell’ambito dell’approccio definito ‘teoria del punto critico’ (cfr. Remotti, 2014, cap. I par. 2, cap. II par. 4), la cultura viene considerata una realtà autonoma, nettamente separata dalla natura, intesa, quest’ultima, come la dimensione delle caratteristiche fisiche e organiche degli esseri umani, ma anche degli altri animali e dei fenomeni in generale. È l’antropologo statunitense A. Kroeber a inaugurare questa prospettiva nel 1917 con la pubblicazione del saggio The Superorganic. Il campo del superorganico è costituito dalla cultura, che si pone a un livello esterno rispetto alla dotazione organica dell’individuo. Il termine usato dall’autore è interessante perché vuole altresì porre in evidenza l’idea non oppositiva dei due concetti: la cultura non va in direzione opposta rispetto alla natura, ma, in un certo senso, la completa, seguendo il medesimo percorso nei termini di una “seconda natura” (Remotti, 2014, cap. II par. 5).
Per illustrare la propria posizione sull’argomento, Kroeber (1917) fa riferimento a un esempio concernente l’adattamento al clima particolarmente rigido dell’Artico: le specie animali che vivono in quell’ambiente, argomenta l’autore, si sono adattate gradualmente al freddo con un’evoluzione di tipo organico che li ha muniti di una folta pelliccia (p. 167). D’altro canto, gli esseri umani che abitano le regioni del nord del mondo, dal punto di vista fisico, non sono così diversi dai loro simili altrove: per sopravvivere al clima polare, essi agiscono culturalmente, usando le pellicce degli animali cacciati per confezionare abiti caldi (ivi, p. 168). Un bambino nasce sempre “nudo e inerme dal punto di vista fisico” e si completa solo grazie alla dimensione superorganica (ivi, p. 169). Anche altrove Kroeber (1923) evidenzia che gli esseri umani sono unici rispetto agli altri animali, in quanto detentori della facoltà del linguaggio verbale, elemento essenziale che consente la simbolizzazione, l’astrazione e la generalizzazione, e, pur poggiando su una base organica e fisiologica, è un “prodotto del superorganico” (p. 106).
La questione, per l’autore, non si gioca tanto sul fatto che l’essere umano sia dotato di qualità organiche (cervello) che hanno portato a sviluppare una maggiore intelligenza rispetto agli altri animali, quanto sul fatto che la dimensione della cultura, che Kroeber chiama anche civilizzazione, si è imposta come punto cruciale nella nostra evoluzione, in termini di continuità, operando a un proprio livello di determinazione (ibid.). La specie umana è stata ‘completata’ proprio grazie allo sviluppo della cultura, e questo è accaduto, nell’ottica del punto critico, in maniera relativamente netta, dopo che l’evoluzione organica (fisica e psichica) ha raggiunto il suo massimo sviluppo (cfr. Geertz, 1998, p. 60): anche se non ne conosciamo con certezza le origini, l’evoluzione sociale non ha antecedenti rispetto all’evoluzione organica, asserisce Kroeber (ivi, pp. 210-212).
3.2. Cultura e natura insieme
La prospettiva kroeberiana della cultura come natura complementare e autonoma, oltre ad essere dibattuta per vari motivi da alcuni studiosi contemporanei all’autore (cfr. per esempio Sapir, 1917), viene messa definitivamente in crisi dagli studi paleoantropologici che, a partire dagli anni Venti del Novecento, portano in luce una qualche forma di cultura che già caratterizzava i più remoti antenati dell’homo sapiens. Anche gli australopiteci, infatti, così come l’homo habilis e l’homo erectus, sebbene caratterizzati da una struttura cerebrale meno complessa rispetto a noi, detenevano comunque determinate competenze e pratiche socio-culturali (fabbricazione di utensili, organizzazione in aggregati sociali, ecc.). Sulla scorta di queste scoperte, come osserva A. Leroi-Gourhan (1977), non è più possibile considerare il cervello come protagonista dello sviluppo cognitivo e culturale: “constatare con lo Zinjantropo [Australopithecus boisei] che il processo di umanizzazione comincia dai piedi è forse meno esaltante che immaginare il pensiero mentre abbatte i tramezzi anatomici per costruirsi un cervello, però è un sistema abbastanza sicuro. Per l’edificio sociale, vale la pena seguire lo stesso sistema” (vol. I, p. 177). È, infatti, con l’acquisizione della stazione eretta che gli ominidi liberano le mani e la bocca, dando vita alla gestualità, all’attività sociale e culturale, alla possibilità e capacità di linguaggio. Nella prospettiva del cosiddetto ‘modello interattivo’ (Remotti, 2014, cap. I par. 3), la cultura non interviene dunque subitaneamente come una seconda natura, ma accompagna gradualmente l’evoluzione organica dell’essere umano, interagendovi e condizionandola. Come osserva C. Geertz (1998), pioniere di questa prospettiva, “tra il modello culturale, il corpo e il cervello fu creato un effettivo sistema di retroazione in cui ciascuno foggiava il progresso dell’altro” (p. 62).
CONCLUSIONI
Abbiamo illustrato le principali teorie socio-antropologiche che hanno tentato di fornire una spiegazione alla ‘dotazione’ culturale dell’essere umano in relazione alla sua natura. Sempre Geertz, questa volta sulla scia di Kroeber, osserva che l’essere umano è definibile come un animale incompleto – poiché la sua natura non è sufficiente alla sua sopravvivenza –, che tuttavia si completa proprio grazie alla dimensione della cultura e delle diverse forme (scelte) culturali (ivi, p. 64). Le teorie più recenti relative alla dimensione della cultura aprono tuttavia a nuovi dubbi e domande circa la sua dipendenza e interazione con la conformazione fisica e cognitiva dell’essere umano. Molti studi hanno, per esempio, ormai confermato che anche gli altri animali sono dotati di varie forme di cultura – tecniche e linguaggi che vengono trasmessi mediante apprendimento –, smontando dunque l’idea che l’elemento ‘cultura’ sia appannaggio esclusivo dell’essere umano (cfr. Bonner, 2016). Parallelamente va notato che tra cervello e cultura esiste una relazione comunque molto stretta e ambivalente: se è appurato che l’evoluzione del cervello ha dato impulso alla determinazione di una cultura sempre più complessa e sofisticata, d’altro canto l’evoluzione stessa della cultura incide molto probabilmente in maniera significativa sull’evoluzione organica degli esseri umani, autoalimentandosi e ponendo in questi termini un rallentamento, se non un freno, alla natura umana (cfr. Remotti, 2014, cap. II par. 4).
Bibliografia e sitografia
- Bonner, J. T. (2016). La cultura degli animali. Bollati Boringhieri (ed. or. 1980).
- Cavalli-Sforza, L. L. (1996). Gènes, peuples et langues. Ed. O. Jacob. (ed. it. 1996).
- Conklin, A. (2013), In the Museum of Man: Race, Anthropology, and Empire in France, 1850-1950. Cornell University Press.
- Geertz, C. (1998). Interpretazione di culture. Il Mulino (ed. or. 1973).
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- Kroeber, A. L. (1923). Anthropology. Harcourt, Brace and Company.
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- Malighetti, R. (2001). Tylor, Edward Burnett. In U. Fabietti, & F. Remotti (A cura di), Dizionario di antropologia (pp. 774-775). Zanichelli.
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- Müller-Wille, S. (2014). Race and History: Comments from an Epistemological Point of View. Science, Technology, & Human Values, 9(4), pp. 597-606.
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- Remotti, F. (1993). Luoghi e corpi. Bollati Boringhieri.
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- Sapir, E. (1917). Do we need a “Superorganic”? American Anthropologist, 19(3), pp. 441-447.
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- Meschiari, M. (2015). Sugli “enfants sauvages”. La foresta senza la foresta. Dialoghi Mediterranei,
- Rossi, P. (1975). Cultura. Enciclopedia del Novecento. Treccani.
- The Race Question (1950). Unesco and its programme.