Il linguaggio e le lingue tra cervello, mente, ambiente e cultura

A cura di Elisa Gosso

INTRODUZIONE

Durante il primo congresso internazionale della lingua spagnola, tenuto in Messico nel 1997, lo scrittore Octavio Paz definì la lingua come “il segno maggiore della nostra condizione umana” e osservò che la parola è sì creazione dell’essere umano, ma è anche, viceversa e parallelamente, creatrice di umanità (cfr. Paz, 1997).

Come parte della più ampia dimensione della comunicazione, il linguaggio verbale ci caratterizza fortemente e detiene alcune proprietà – quale quella metalinguistica – che ne fanno uno strumento comunicativo estremamente efficiente. In prospettiva linguistica, il linguaggio è percepito come la predisposizione fisica e cognitiva dell’essere umano a ‘fare lingua’, – essendo quest’ultima “la parte sociale del linguaggio” (Saussure, 1978, p. 24) –, nonché ad usarla in precisi contesti sociolinguistici e culturali.

Nell’articolo proveremo ad articolare il rapporto fra linguaggio, cervello e ambiente, a partire dalle specificità della nostra ‘condizione umana’ fino a considerare alcune fra le principali teorizzazioni che hanno contribuito al dibattito relativo all’origine del linguaggio e dell’apprendimento linguistico da parte degli esseri umani. 

Linguaggi umani e non umani

Esiste da tempo un ampio dibattito interdisciplinare riguardante affinità e differenze fra i linguaggi animali e il linguaggio umano (cfr. Berthet et al., 2023). Nell’estate del 2018 l’organizzazione statunitense The Gorilla Foundation annunciò alla stampa la morte di Koko, esemplare di gorilla di pianura occidentale a cui la psicologa Francine Patterson, sin dai primi anni di vita (il progetto iniziò nel 1972), insegnò una variante della lingua dei segni americana. Secondo i ricercatori che lavorarono al progetto, Koko aveva appreso circa mille segni e, cosa più importante, era in grado di usarli intenzionalmente a scopo comunicativo, sapeva organizzarli e combinarli per farsi capire, nonché comprendere circa duemila parole (Patterson, & Linden, 1981).

Gli scienziati paragonavano lo stato di conoscenze della gorilla a quello di un bambino nella fase olofrasica, evidenziando anche la sua acquisizione di diverse funzioni pragmatiche (Patterson, Tanner, & Mayer, 1988). L’esperimento condotto con Koko non è in realtà unico. Già negli anni Venti e Trenta del Novecento Robert Yerkes (1943) avviò ricerche volte a indagare potenziali abilità delle scimmie antropomorfe, tra cui memoria, immaginazione, simbolismo, espressione e capacità linguistica (Yerkes, 1943, cit. in Hilgard, 1965, p. 401). Egli ipotizzò che esse potessero esprimersi proprio come fanno gli esseri umani. Da qui seguirono una serie di progetti simili a quello intrapreso con Koko. 

Se questi esperimenti sono stati e sono tutt’oggi oggetto di dubbi, assodato è il fatto che, come provano varie ricerche condotte su gruppi di primati in libertà (cfr. Hobaiter, & Byrne, 2014), le scimmie utilizzano un sistema di gesti al fine di comunicare fra loro. Fra le critiche spicca la teoria, sostenuta da alcuni studiosi, secondo cui i primati non sarebbero in grado di gestire e comprendere realmente le “parole” usate (cfr. Terrace, 2019). Le loro azioni sarebbero limitate a un processo di stimolo-risposta (Koko e gli altri soggetti venivano premiati per i loro progressi), frutto di condizionamento operante, cioè apprendimento mediante un ciclo di stimoli condizionati, risposte e rinforzi positivi o negativi.  

Al di là delle critiche, questi studi ci dimostrano sicuramente che le pratiche di comunicazione dei primati sono tra le più articolate al mondo, anche se non uniche. Particolarmente sofisticati sono pure, per esempio, i sistemi di interscambio comunicativo degli insetti. Però ciò che questi studi indirettamente dimostrano anche è che, – tralasciando per un momento il discorso sulla dimensione sociale e culturale della comunicazione –, è la dotazione biologica degli “altri” animali ad essere tale e dissimile da quella dell’animale uomo, per cui il linguaggio usato da quest’ultimo rappresenta, sotto certi aspetti, un unicum nel campo della comunicazione, non ‘speciale’ ma certamente specifico (cfr. Ferretti, 2015). Le differenze sostanziali si collocano in primis nello sviluppo dell’apparato fonatorio, del cervello e del suo utilizzo.

I fondamenti del linguaggio umano

Capacità fonatoria

La maggior parte dei suoni, o foni, prodotti dall’essere umano vengono emessi grazie a un flusso d’aria in uscita che dai polmoni passa nei bronchi e risale attraverso la trachea fino alla glottide, nella laringe, dove le corde vocali intervengono con una eventuale vibrazione. L’apparato fonatorio umano consta inoltre degli organi più “alti”, lingua, palato e denti, che possono intervenire in vario modo nella generazione di un suono. 

La configurazione di tale apparato è un fatto ontogenetico quanto filogenetico: Lieberman (2016) osserva che il tratto vocale sopralaringeo (TVS) degli esseri umani, con la discesa parziale della lingua nella faringe e l’allungamento del collo, si forma in maniera definitiva tra i sei e i dieci anni e ci consente di produrre tutti i foni che permettono un uso ottimale del linguaggio verbale (pp. 163-164); l’evoluzione ha contribuito a questa conformazione fisica fondamentale, che risulta osservabile nei fossili degli ominidi del Paleolitico superiore, ma era già probabilmente presente prima, almeno 260.000 anni fa (ivi, pp. 176-177). Bambini molto piccoli, scimmie e i primi ominidi hanno in comune una conformazione differente del TVS, con la lingua quasi interamente collocata nella cavità orale e la laringe vicina alla cavità nasale, con conseguente impossibilità di produrre i foni come un essere umano maturo.  

Alcune indagini e alcuni esperimenti hanno messo in luce l’eventuale possibilità, per le scimmie, di produrre foni e sillabe, evidenziandone caratteristiche anatomiche, fonatorie e neurali, che sarebbero state ignorate negli studi precedenti (cfr. Tecumseh Fitch, et al., 2016; Ekström, et al., 2024). Si tratta comunque, almeno per il momento, di ricerche circoscritte. 

Cervello e mente

Il fatto di essere in grado di usare un linguaggio verbale così specifico è riconducibile anche al nostro cervello – tanto che se determinate parti del cervello subiscono un eventuale danno rischiamo di non riuscire più a verbalizzare o a comprendere le parole. 

È proprio sulla base dell’osservazione di casi di afasia che furono compiute le prime riflessioni circa il ruolo del cervello nella produzione e comprensione delle parole. Nella seconda metà dell’Ottocento, il medico e antropologo Broca osservò un paziente che aveva subito una lesione nell’area del lobo frontale sinistro e non riusciva più a produrre parole comprensibili. A partire da questo caso e dall’analisi di altri pazienti, fu dedotto che quest’area cerebrale sia deputata alla produzione del linguaggio. Più o meno nello stesso periodo il neurologo Wernicke compì le medesime osservazioni su un paziente che aveva problemi di comprensione e corretta articolazione delle parole ed era stato colpito da ictus con danni nella regione temporale posteriore della corteccia cerebrale. Da qui la deduzione che quest’area sia dominio-specifica per la comprensione del linguaggio. Tali aree, denominate in conseguenza con i nomi dei due studiosi, sono tutt’oggi riconosciute come specializzate nel linguaggio. 

Vanno tuttavia citate le criticità di tali ipotesi emerse dalle più recenti scoperte neuroscientifiche: non è più possibile, infatti, riferirsi a questi modelli modulari, peraltro di ispirazione frenologica, come rappresentazioni uniche e valevoli per la spiegazione anatomica della facoltà umana del linguaggio verbale. Grazie alle moderne tecniche e tecnologie è stato infatti osservato che le lesioni nelle aree sopracitate, da sole, non necessariamente determinano afasia e che tali aree non possono più essere considerate dominio-specifiche rispetto al linguaggio (cfr. Adornetti, 2019). Come nota Lieberman (2016), sarebbe bene considerare, a livello di processi linguistici, non una o più aree dominio-specifiche, ma i ‘collegamenti’ che coinvolgono olisticamente le varie parti del cervello: “i circuiti neurali che coinvolgono la corteccia, i gangli della base, l’ippocampo e altre strutture costituiscono il motore di base delle capacità cognitive umane, incluso il linguaggio” (p. 56). 

La cognizione umana può essere definita, in sintesi, come quella “modalità attraverso la quale si ottiene consapevolezza della realtà, in relazione ai processi psichici” (“Cognizione”, 2010). Oltre alla componente anatomica del nostro cervello va considerato infatti quello ‘spazio mentale’ di più difficile osservazione e analisi connesso al funzionamento di tale sistema fisico mediante i processi cognitivi, attraverso cui esperiamo la realtà che ci circonda e ci relazioniamo con essa. Il linguaggio è riconosciuto come uno dei processi cognitivi che costituiscono il funzionamento della nostra mente: a partire da questa prospettiva risulta ancora più complesso identificarne l’origine e sono state formulate diverse risposte a sostegno di varie ipotesi – naturalistica, innatista, culturale, sociale, ecc. Non possiamo inoltrarci a fondo in questo complesso dibattito, per il quale rimandiamo ad altre sedi (cfr. Marconi, 2009). Proveremo tuttavia ad approcciare la questione con l’analisi delle prospettive di tre studiosi che, nell’ambito della psicologia della mente e dello sviluppo, hanno riflettuto sulla collocazione della fonte dell’apprendimento linguistico, inteso come fatto di ‘natura’ o di ‘cultura’, ossia di esteriorizzazione (dipendenza dalla maniera in cui è conformata e lavora la nostra psiche in termini universali) o di interiorizzazione (dipendenza dalle interazioni con l’ambiente esterno).

Lingua, pensiero, realtà: l’apprendimento linguistico frutto di ‘cultura’ o ‘natura’?

La prospettiva di Jean Piaget

Nella prospettiva di Piaget – sebbene la relazione fra individuo e ambiente sia percepita come centrale e dinamica –, il linguaggio rappresenta una manifestazione cognitiva dipendente dalla comparsa di nuovi processi mentali nell’ambito dell’evoluzione fisico-biologica dell’individuo. Com’è noto, mediante osservazioni ed esperimenti, Piaget (1937) ha individuato una serie di stadi di sviluppo cognitivo nei bambini tra gli zero e i dodici anni di età, attraverso i quali la facoltà di linguaggio si evolve da una forma ‘egocentrica’ (in termini autoreferenziali più che comunicativi) a una forma ‘socializzata’ (diretta all’interazione). In questa visione, il linguaggio consiste dunque in una competenza fondamentalmente ‘interiore’, che si sviluppa, viene ‘esteriorizzata’ e diviene socializzata in un secondo momento, mediante azioni cognitive che l’autore identifica con due processi: l’assimilazione, cioè l’integrazione di nuove conoscenze con strutture o schemi mentali già in essere, che possono rimanere invariati o cambiare, adattandosi alla nuova situazione (Piaget, 1967, p. 20), dando così vita all’accomodamento, cioè la modifica dei modelli di assimilazione sotto l’influenza dell’ambiente a cui si applicano (ivi, p. 25). 

La prospettiva di Lev Vygotsky

Secondo Vygotsky (2019) i segni e le parole servono ai bambini innanzitutto come mezzo di contatto sociale con le altre persone (cap. 1 par. 3) ed è l’esperienza sociale, nonché culturale, che costituisce il motore di apprendimento linguistico. Il percorso, in questa prospettiva, è proprio inverso rispetto alla visione di Piaget. I bambini, immersi in un contesto sociale e culturale, dapprima imparano e usano il linguaggio per rivolgersi agli altri. Solo in un secondo momento il “discorso socializzato” viene rivolto verso l’interno e il linguaggio, asserisce l’autore, assume una funzione intrapersonale in aggiunta al suo uso interpersonale (ibid.). L’apprendimento del linguaggio e, più in generale, lo sviluppo della mente, è dunque, per Vygotsky, un fatto di interiorizzazione: un’attività socialmente radicata e storicamente sviluppata colta all’esterno, interpsicologica, viene ricomposta e interiorizzata nel bambino, mediante una lunga serie di eventi evolutivi, diventando intrapsicologica (ivi, cap. 4). 

La prospettiva di Jerome Bruner

Bruner fu influenzato da entrambe le teorie di Piaget e di Vygotsky, costruendo una propria teoria di compromesso relativa all’apprendimento linguistico. Secondo Bruner (1983), gli esseri umani detengono una ‘dotazione cognitiva’ determinata da almeno quattro fattori o predisposizioni – requisiti di azione e coordinazione, transazionalità, sistematicità e astrattezza (p. 30) –, che non possono essere appresi per via sociale e sussistono come “equipaggiamento mentale minimo” mediante cui un bambino è in qualche maniera programmato all’uso del linguaggio (ivi, p. 119). Tuttavia essi da soli non sono sufficienti affinché un individuo sia realmente in grado di usare il linguaggio in una dimensione comunicativa. Bruner assegna un forte peso al contesto sociolinguistico e pragmatico: i primi atti comunicativi di successo richiedono un contesto condiviso e familiare che aiuti i partecipanti allo scambio a rendere chiare le proprie intenzioni comunicative l’uno all’altro (ivi, p. 128), come nel caso delle interazioni linguistico-comunicative fra genitori e figli piccoli. Le regole dello scambio linguistico-comunicativo continueranno poi ad essere assimilate mediante l’acquisizione e la pratica delle procedure simboliche e culturali che costituiscono la realtà sociale in cui il bambino vive (ivi, p. 134). 

Conclusioni

Pievani (2014) osserva che “il linguaggio è una combinazione di caratteristiche antiche (il bipedalismo, l’abbassamento della laringe) e recenti (la funzione simbolica, la ricorsività) tenute insieme dalla strategia preferita dell’evoluzione darwiniana che è il rammendo, il bricolage, l’exaptation, cioè il riutilizzo ingegnoso di strutture preesistenti per svolgere nuove funzioni” (cap. V). Il linguaggio verbale umano è in effetti specifico in quanto frutto di una ‘caotica’ combinazione di elementi fisici, cognitivi e culturali, sia a livello ontogenetico che filogenetico. Abbiamo attraversato alcune teorie e ipotesi che hanno tentato di trovare una risposta alle origini della capacità di linguaggio verbale umana, nonché dell’apprendimento linguistico. Chiudiamo il cerchio ritornando fondamentalmente alle affermazioni di Paz citate in introduzione e concludendo questa panoramica con la visione complessa proposta da Lieberman (2016), il quale asserisce che “sebbene la biologia – e quindi la genetica – definisca le capacità cognitive umane di base, ci sono relazioni intime e complesse tra la biologia, la cultura, il linguaggio e il pensiero. La biologia pone dei limiti al pensiero, ma la cultura cambia la biologia, il linguaggio trasmette la cultura e quest’ultima influenza il linguaggio e il pensiero” (p. 230). 

BIBLIOGRAFIA

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SITOGRAFIA