Il disegno tra capacità innata e competenza appresa?
a cura di M. REBECCA FARSI
Il valore espressivo dell’immagine è universale: non servono particolari competenze perché un’immagine attiri l’attenzione di chi la osserva, suscitando una reazione più o meno consapevole, più o meno coinvolgente, più o meno ragionata. È un effetto inevitabile, così come la capacità esecutiva che consente, sin dalle fasi arcaiche della vita, di riprodurre la forma di ciò che viene osservato, in risposta ad una pulsione grafica pressoché innata.
Il disegno come canale di apprendimento e comunicazione
Attirato dal fascino di tutto ciò che va a stimolare la sua percezione visiva, il bambino lo disegna, cercando, in quell’emulazione grafica, un canale di accesso e di controllo del Sé e del mondo.
Ogni cosa può essere disegnata: oggetti, contesti e persone, egualmente attinti dalla realtà o dalla fantasia. Persino la scrittura, a partire dai 2 anni di età, viene riprodotta attraverso un groviglio di linee e scarabocchi che, per quanto privi di corrispondenza fonetico- simbolica, lasciano trasparire l’ingenua ma incoercibile propensione ad esprimersi, ad apprendere ed affermarsi attraverso la tecnica pittorica ( Compagnoni, 2010).
È sulla base di questo assunto che, in merito allo sviluppo della capacità grafica nella specie umana, si è consolidata la c.d. tesi universalistica, basata sulla convinzione che ogni individuo, appartenente a qualsiasi cultura, sia naturalmente in grado di produrre e riprodurre segni grafici, pur nella diversità di contesti evolutivi e stili di vita ( Pontecorvo, 1999; Golomb, 2004).
Una serie di fattori ha contribuito al consolidamento di questa ipotesi. Nello specifico:
- la suscettibilità delle immagini ad essere immediatamente riconosciute, anche da coloro che le vedono per la prima volta;
- la diffusione globale del disegno ( le popolazioni di tutto il mondo sono da sempre dedite all’arte grafica);
- una certa similarità nell’evoluzione delle competenze grafico-pittoriche, indipendentemente dalla cultura di appartenenza.
Studi effettuati a mezzo di osservazioni transculturali (Kellog, 1970), hanno inoltre riscontrato una sostanziale analogia:
- nel contenuto delle prime riproduzioni grafiche: i bambini, in ogni contesto culturale, disegnano soprattutto figure umane, edifici, mezzi di trasporto, animali;
- nell’utilizzo delle tecniche pittoriche: per disegnare viene utilizzata soprattutto la parte centrale del foglio, e lo stile del ductus – all’inizio finalizzato più che altro ad una scarica pulsionale- risulta privo di una precisa coordinazione oculo – motoria e di un intento riproduttivo realistico;
- nella commissione degli errori: in tutti i disegni sono stati riscontrati squilibri simmetrici e dimensionali, assenza della prospettiva, valorizzazione della testa rispetto al resto del corpo, mancanza della linea di terra, tendenza a rappresentare le trasparenze, tratto disorganizzato, linee spezzate e disarmoniche.
Questo tenderebbe ad avvalorare l’ipotesi di una capacità grafica non influenzabile dal contesto culturale, ma universale e indeclinabile. A prescindere dalla civiltà (Golomb, 2004).
Di parere contrario la teoria situazionistica, che attribuisce all’elemento culturale una rilevante capacità di mediazione circa lo sviluppo delle competenze grafiche, nelle tempistiche e nelle modalità di esecuzione. Secondo questa teoria, interpretare un disegno senza far riferimento al contesto ecologico significherebbe venir meno alla possibilità di coglierne significati e dettagli che, proprio nella diversità culturale, possono trovare un valido elemento differenziante ( Pinto, 2012; Pinto e Bombi, 1999).
L’ambiente e la capacità grafica: l’importanza del fattore esperienziale
L’essere umano è naturalmente portato a rappresentare le situazioni con cui si trova ad avere maggior familiarità: oggetti o persone che meglio conosce, e che per questo vengono più stabilmente assimilati nel suo sistema mnestico.
Il disegno è fortemente influenzato dall’esposizione visiva, che a sua volta non può prescindere dal contesto culturale di riferimento. Sarebbe altrimenti difficile spiegare perché bambini africani rappresentano zebre e cammelli più frequentemente dei bambini europei- che prediligono la raffigurazione di cani, gatti e animali domestici- e dei bambini indiani, che tendono a riprodurre capre e mucche ( Pinto, 2012). E sarebbe altrettanto incomprensibile il motivo per cui, bambini appartenenti alla cultura zingara, disegnano la casa come un carrozzone a quattro ruote, con il tetto piatto e una scaletta esterna (Gemello, 1971) diversamente da quanto accade nei soggetti occidentali, che raffigurano la casa secondo uno stile più archetipico.
- Fatta salva l’opera mediatrice della fantasia, è dall’esperienza quotidiana che l’esercizio grafico trae il proprio spunto elettivo.
Discorso analogo vale per la figura umana, la cui rappresentazione grafica risulta egualmente influenzata dalla frequenza e dall’intensità dell’esposizione visiva. Ad esempio, i bambini sono portati a disegnare più di frequente figure femminili –che valorizzano nelle dimensioni, nell’aspetto estetico e nella cura dei dettagli -perché è proprio la madre, pressoché in ogni cultura, il soggetto delegato all’accudimento dei figli. Prendiamo ad esempio il caso delle Isole Barbados, in cui una prolungata assenza del padre dal nucleo familiare porta i bambini a disegnare quasi esclusivamente figure femminili (Burton, 1971).
Al contrario, nella cultura balinese ( Mead, 1951; Mead, 1946; Spitz, 1958) in cui il padre si sostituisce presto alla madre nella cura della prole, è proprio quest’ultimo a risultare maggiormente rappresentato psichicamente; mentre nella realtà samoana, in cui i bambini non vengono allevati da una sola figura materna, ma da una pluralità di figure femminili facenti parte del clan parentale, la concezione grafica della madre si mostra egualmente variegata ( Mead, 1928; Mead, 1946; Spitz 1958).
Sembra dunque che l’esperienza – esterna ed affettiva- sia in grado di influenzare sostanzialmente lo stile e il contenuto del disegno. E questo accade pressoché in ogni cultura.
Il disegno della figura umana nelle varie culture
La prima rappresentazione della figura umana è il c.d. omino girino, uno schema pittorico rudimentale, nella quale il corpo umano viene rappresentato come un groviglio di linee non orientate e non centrate nel foglio; a ciò fa seguito, verso i 3 anni, il disegno dell’omino cefalopode, meglio noto come omino testone, in cui il tronco è raffigurato da una linea spezzata verticale- simile ad uno stecchino- e la testa viene identificata con una forma circolare di notevoli dimensioni.
In questa fase il disegno è privo di proporzione, verosimiglianza e attendibilità grafica, ma non è questo l’intento che lo ispira: il bambino vuole semplicemente rispondere ad una pulsione grafico motoria che si verifica ovunque alla stessa età – tra i 24 e i 36 mesi- e secondo i medesimi stilemi.
Sembrerebbe un’ipotesi a favore della tesi universalistica del disegno. E in parte lo è. Se non fosse che, ad un’omologazione temporale nell’insorgenza dell’impulso grafico, fanno seguito una serie di divergenze stilistico- evolutive direttamente riconducibili al contesto culturale (Golomb, 2004).
Le differenze notate nei disegni provenienti da diversi contesti culturali sono numerose e ben visibili (Pontecorvo, 1999; Pinto e Bombi, 2012).
All’interno di culture collettiviste come quelle orientali, la figura umana viene meno valorizzata dal punto di vista dimensionale- le figure sono più piccole e collocate agli angoli del foglio- e tende ad essere rappresentata in gruppo piuttosto che singolarmente- mentre le popolazioni occidentali, inserite in un contesto prettamente egocentrico, tendono a privilegiare uno stile figurativo egualmente individualistico, in cui le figure appaiono più grandi e poste al centro del foglio.
Studi cross-culturali hanno inoltre consentito di rilevare una differenza nella rappresentazione di specifici elementi somatici e pittorici: ad esempio orecchie e naso vengono enfatizzati da bambini africani ed asiatici, mentre i bambini brasiliani preferiscono dare risalto ad elemento figurativi come capelli, occhi, indumenti ( Pinto, 2012). E se la cultura orientale ama arricchire la figura umana di gioielli ed ornamenti, talvolta persino sovraccaricandola- culture meno propense a valorizzare l’elemento estetico, come quelle nord europee, tendono ad una rappresentazione grafica meno ostensiva. Scarna, quasi essenziale.
Si segnala il caso limite dei Walbiri, aborigeni dell’Australia meridionale, che raffigurano la il soggetto umano attraverso un semplice semicerchio, e quasi non lo differenziano dalla raffigurazione di altri elementi naturalistici e architettonici, come alberi e case. In verità la cultura dei Walbiri è quasi totalmente svincolata dalla rappresentazione realistica, e usa i medesimi segni per rappresentare una pluralità di elementi, senza una netta distinzione tra oggetti e individui: così un cerchio può indicare ora una casa, ora un uovo, ora un falò, mentre una linea ondulata può raffigurare un serpente, un danzatore, un fiume, o qualsiasi altro oggetto presenti una linea pittorica più morbida (Pontecorvo, 1999).
La valorizzazione del disegno e l’importanza dell’esercizio
Nei contesti culturali in cui il disegno risulta più frequentemente praticato, le tecniche esecutive mostrano uno sviluppo più veloce e divergente, con conseguenze positive sulla qualità del prodotto finale: bambini italiani di 6 anni sono già in grado di rappresentare la figura umana di profilo o impegnata nell’esecuzione di attività dinamiche- laddove nei paesi in cui l’arte pittorica riceve una minore valorizzazione – bambini boliviani o libanesi -questa competenza viene raggiunta solo verso i 10 anni, e con una tecnica pittorica qualitativamente inferiore ( Pinto e Bombi, 1999).
Egualmente, bambini brasiliani inseriti in un contesto socio economico svantaggiato- nello specifico favelas dei sobborghi di San Paolo- mostrano capacità pittoriche meno sviluppate rispetto a quelle dei bambini cresciuti in villaggi caratterizzati da un livello più elevato di scolarizzazione e stimolazione visiva ( Zipoli, 2001; Tramonti, 2004).
Studi condotti in culture dove il disegno non viene pressoché praticato – ad esempio la popolazione beduina- mostrano la prevalenza di una tecnica pittorica rudimentale e povera di dettagli, anche nei soggetti in età scolare; un confronto cross culturale tra gruppi di bambini inglesi e giapponesi di 7 e 11 anni ha egualmente evidenziato una maggiore competenza tecnica e di precisione in questi ultimi, dovuta alla maggior stimolazione visiva cui gli stessi sono sottoposti- si veda il caso dei manga- sia nel contesto scolastico che in quello familiare (Cannoni, 2012; Longobardi et al. 2012; Pinto 2012).
Dunque, l’importanza che il disegno ricopre all’interno di ogni società può concretamente determinare una differenza nella qualità e nel numero delle soluzioni pittoriche impiegate.
Ma non si tratta di una condizione definitiva.
Uno svantaggio grafico è pur sempre migliorabile con l’esercizio
Una pratica pittorica intensa e mirata può apportare sostanziali miglioramenti nell’utilizzo delle tecniche pittoriche: in una ricerca di Cox e Parkin (1986) si è infatti riscontrato come, bambini appartenenti alla popolazione di Papua Nuova Guinea, siano riusciti ad affinare le rispettive capacità esecutive- in origine piuttosto svantaggiate- dopo essere stati inseriti in un contesto ambientale ricco di stimolazioni visive e spunti di rappresentazione grafica.
Il ruolo dell’esposizione pratico esperienziale non può dunque venir trascurato: a disegnare si impara, e, fatte salve le propensioni individuali, l’affinamento delle tecniche pittoriche risulta direttamente proporzionale alla quantità e all’intensità dell’esercizio.
La cultura dei colori
L’importanza del contesto culturale influisce anche sull’impiego dei colori, differenziando stili e modalità di utilizzo: ad esempio, bambini brasiliani e africani tendono a valorizzare maggiormente l’elemento cromatico rispetto agli occidentali, mentre giapponesi e cinesi sono più attenti alla rappresentazione grafica che alla gestione del colore, in ragione della cura del dettaglio iconografico cui vengono precocemente esposti. Differente anche il significato dei colori, il cui utilizzo può simbolizzare diversi stati emotivi nelle rispettive culture di appartenenza: ad esempio, se nelle società occidentali il nero viene associato al lutto, in quelle orientali – come Cina e Giappone- è il bianco a rivestire questo ruolo, mentre il nero è un colore che simboleggia gioventù ed opportunità future. Egualmente il bianco rappresenta infelicità nei contesti culturali di India e Pakistan, mentre in Scozia è il verde a portare sfortuna, e l’Egitto rappresenta il lutto attraverso il giallo. Ancora, nel contesto occidentale Europa il blu rappresenta calma ed armonia, mentre la cultura orientale, e spesso anche quella americana- vi collegano un vissuto di tristezza e nostalgia.
Il disegno come soluzione creativa
Il disegno crea un importante nesso operativo tra pensiero ed esecuzione, stimolando la dimensione cognitiva e la capacità riproduttiva in una direzione creativa. Ciò, nello specifico:
- crea un accesso immediato al magazzino mnestico, nel quale le immagini vengono conservate in attesa di essere riprodotte;
- stimola il ragionamento operativo, se si considera il disegno come problem solving che consente di approcciarsi all’arte figurativa tramite interpretazioni personali, flessibili e adattive;
- potenzia la capacità creativa, stimolando sensibilità e immaginazione;
- favorisce lo sviluppo di competenze di motricità fine e di correlazione oculo-motoria;
- agevola la maturazione di competenze esecutive, favorendo l’introiezione di processi di know how, finalizzati a riprodurre in maniera verosimile la realtà;
In tutto questo il contesto culturale non può essere considerato un elemento di importanza periferica, in fedeltà ad un riduzionismo biologico che riconduce la capacità grafica ad un fattore innato ed entitario, cristallizzandone la stesso potenziale creativo.
Sarebbe imprudente approcciarsi ad un’interpretazione simbolica del disegno prescindendo dall’importanza del contesto culturale di appartenenza.
Il rapporto dicotomico tra gli aspetti di natura e cultura deve essere più opportunamente sostituito da una prospettiva di interazione reciproca, in cui il corredo genetico – di per sé basilare- risulta tuttavia influenzato dal dato culturale e non può prescindere dallo stesso.
La tesi universalistica asserisce un dato incontestabile: le capacità grafiche sono presenti in ogni essere umano e si trasmettono in via filogenetica. Non sarebbe altrimenti possibile spiegare una competenza esecutiva che, nella maggior parte dei casi, prescinde da qualsiasi intervento didattico; ma allo stesso modo sarebbe inopportuno asserire che la cultura di appartenenza non influisca nello sviluppo delle tecniche di esecuzione pittorica, influenzandone- talvolta sostanzialmente- le tipologia, la qualità, la tempistica di comparsa e di evoluzione.
Dunque siamo nati per disegnare. Ma se la realtà è l’elemento di raffigurazione privilegiata, non è possibile prescindere da quest’ultima, in uno studio dell’elemento figurativo che possa definirsi completo e scientificamente “leale”.
Bibliografia
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Compagnoni, E. (2010) Scarabocchi e non solo. Per una pedagogia del disegno nei nidi e nelle scuole dell’infanzia, Edizioni La Meridiana,
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Risorse informatiche
https://www.crearelogo.it/ Guida Al Significato Dei Colori Nelle Diverse Culture – CreareLogo.it, consultato il 24 maggio 2024.