Evoluzione semantico-linguistica nella definizione della disabilità

disabilita

a cura della dott.ssa Serena Maugeri

Introduzione

La Giornata Internazionale delle persone con disabilità, che ricorre il 3 dicembre di ogni anno, è stata indetta per la prima volta dall’ONU nel 1981 al fine di aumentare la consapevolezza e la comprensione delle problematiche connesse alla disabilità, soprattutto in termini di dignità, diritti e benessere. Dal 1981 ad oggi sono stati compiuti tanti passi importanti nel riconoscimento dei diritti delle persone con disabilità, tra cui inserire l’incremento della qualità di vita delle persone disabili all’interno dell’Agenda per lo sviluppo sostenibile del 2030.

Tuttavia, sussistono ancora molti pregiudizi e innumerevoli barriere che impediscono la reale integrazione dei soggetti con disabilità all’interno del panorama sociale: è ancora, infatti, molto pressante la sottovalutazione delle capacità pratiche e intellettive nella disabilità, con conseguente esclusione pregiudiziale. A questo proposito, potrebbe risultare congeniale operare una breve riesamina delle modificazioni semantico-linguistiche con le quali viene definita la disabilità. 

1. La concezione di partenza: Il modello medico-sanitario 

Originariamente, la disabilità veniva vista come conseguenza di un danno che causa una situazione di “manchevolezza” nella persona che “subisce” l’involontaria condizione della disabilità.

In questa concezione, la società, di fronte alla disabilità, deve rispondere con interventi di tipo riparatorio-assistenziale, al fine di aiutare la persona con disabilità a vivere una vita più dignitosa e normotipica possibile. Emerge chiaramente l’inclinazione alla pietà verso le persone con disabilità: sono persone malate, che devono affidarsi alle cure mediche e alla società per riabilitarsi e recuperare quanto possibile. 

2. Anni ’60: Il Movimento per la Vita Indipendente e la necessità di una nuova terminologia 

I primi segnali di cambiamento sociale si hanno nel 1962, quando Ed Roberts, ragazzo reso tetraplegico dalla poliomelite, diventa il primo studente con disabilità a frequentare un college. Seguono altre 12 ammissioni in Ateneo di studenti con disabilità grave. I ragazzi con disabilità venivano fatti studiare e partecipare alla vita universitaria, ma venivano fatti vivere in un’infermeria separata dalla residenza studentesca, e venivano loro fornite delle assistenze involontarie.

È all’interno di quella infermeria che la disabilità viene per la prima volta formulata come fonte di discriminazione sociale per la persona. La società, in particolare, viene vista come la principale barriera ai diritti dei cittadini con disabilità; la discriminazione dunque è eliminabile tramite azioni concrete di inclusività, e non tramite la “discriminazione positiva” fondata sul pietismo. L’idea di una nuova concezione della disabilità cammina velocemente: coinvolge, infatti, sempre più persone con disabilità, portando alla nascita di diverse organizzazioni votate all’inclusione e al rispetto dei diritti dei disabili.

I capisaldi della Vita Indipendente sono: 

  • Stesse opportunità di scelta per le persone, con o senza disabilità. 
  • Scardinamento della tradizionale interpretazione di dipendenza del disabile, in favore di un modello di indipendenza e autodeterminazione. 
  • Controllo su qualsiasi tipo di assistenza che il diretto interessato deve ricevere. 
  • Rispetto delle differenze tra persone, ottenibile tramite l’eliminazione degli standard sociali in termini di funzionalità e attività da portare a termine. 

In altre parole, una Vita Indipendente significa avere la stessa libertà di scelta di qualsiasi altro cittadino. La lotta per la Vita Indipendente, ovvero per il controllo della propria esistenza da parte dei disabili, si riflette anche sull’acceso dibattito circa l’uso di una terminologia meno discriminante, che rispecchiasse il mutamento socio-culturale che si stava vivendo. 

2.1 Disabilità: Prima formulazione (1980)

Questa differente sensibilità culturale porta alla nascita, nel 1980, di una prima nomenclatura redatta dall’OMS. Il primo modello dell’OMS in fatto di disabilità proponeva un modello lineare composto da: 

  • MENOMAZIONE (impairment): qualsiasi anomalia o perdita a carico di una struttura fisiologica, psicologica o anatomica causata da un evento morboso. Poteva essere transitoria o permanente, ed era inerente al funzionamento del corpo. La menomazione veniva dunque sempre intesa come un’anomalia di carattere organico. 
  • DISABILITÀ (disability): qualsiasi limitazione o perdita, conseguente a menomazione, di strutture fisiche e/o psicologiche, tali da comportare l’incapacità di portare a termine attività in modo ritenuto normotipico. In quanto connessa alla menomazione, anche la disabilità poteva presentare carattere transitorio o permanente. 
  • HANDICAP: la condizione di svantaggio psicofisico e sociale derivante dalla disabilità. L’handicap, secondo l’OMS, impediva alla persona disabile di assurgere alle normali funzioni relative alla sua età, al suo sesso e al suo ambiente socio-culturale di appartenenza. 

La formulazione del 1980 introduce timidamente la necessità di considerare l’handicap come un fenomeno sociale, in quanto in rapporto con fattori sanciti dall’ambiente di appartenenza. Tuttavia, l’handicap risulta essere anche il punto più critico della nomenclatura: l’impatto infatti che la disabilità ha sull’individuo che la possiede si colloca come una barriera, una inevitabile condizione di svantaggio che porta implicitamente ad una minore qualità di vita e ad una più scarsa partecipazione sociale.

Inoltre, l’handicap viene visto in relazione ai ruoli e alle attività che l’ambiente si aspetta che una persona sia in grado di svolgere. L’handicap si colloca dunque come una sorta di discrepanza tra l’aspettativa di efficienza e le reali capacità dell’individuo. Questa concezione è chiaramente fallace: la prestazione di una persona può variare in base ai contesti e alle richieste che vengono ad essa rivolte; allo stesso modo, non si può considerare una persona “con handicap” solo perché, in alcuni ambiti specifici, la prestazione è al di sotto dell’attesa.

Ecco che parlare di handicap diviene insensato, e la nomenclatura appare da subito troppo obsoleta per il nuovo sentire sociale. Infine, è stata lungamente criticata la linearità del modello proposto: non sempre, infatti, vi è un rapporto unidirezionale causa-effetto tra menomazione, disabilità e handicap. Considerare solo questa tipologia di decorso riduce la complessità del fenomeno in oggetto. 

2.2 Disabilità: Seconda formulazione (2001)

Alla luce delle criticità emerse, si approda dunque alla seconda nomenclatura, proposta dall’OMS nel 2001. Il nuovo modello OMS si compone di: 

  • FUNZIONI CORPOREE: le funzioni fisiologiche e psicologiche del sistema corporeo. Le funzioni corporee si collocano come l’ambito più squisitamente medico, e comprendono:
    • Funzioni mentali;
    • Funzioni sensoriali e dolore;
    • Funzioni della voce e dell’eloquio;
    • Funzioni del sistema cardiovascolare, ematologico, immunologico e respiratorio;
    • Funzioni del sistema digestivo, metabolico e endocrino;
    • Funzioni genito-urinarie e riproduttive;
    • Funzioni neuro-muscolo-scheletriche e collegate al movimento;
    • Funzioni della cute e strutture associate. 
  • STRUTTURE CORPOREE: le parti anatomiche del corpo. Comprendono otto strutture:
    • Strutture del sistema nervoso;
    • Occhio, orecchio e strutture collegate;
    • Strutture collegate alla voce e all’eloquio;
    • Strutture dei sistemi cardiovascolare, immunologico e respiratorio;
    • Strutture collegate al sistema digestivo, metabolico e endocrino;
    • Strutture collegate al sistema genito-urinario e riproduttivo;
    • Strutture collegate al movimento;
    • Cute e strutture collegate. 
  • ATTIVITÀ e PARTECIPAZIONE: l’attività è l’esecuzione di un compito o di un’azione da parte di un individuo; la partecipazione è invece il coinvolgimento dell’individuo in situazioni sociali e di vita. Comprendono:
    • Apprendimento e applicazione della conoscenza;
    • Compiti e richieste di carattere generale;
    • Comunicazione;
    • Mobilità;
    • Cura della propria persona;
    • Vita domestica;
    • Interazioni e relazioni interpersonali;
    • Principali aree della vita;
    • Vita di comunità, sociale e civica. 
  • FATTORI AMBIENTALI: l’ambiente fisico e sociale entro cui le persone vivono e conducono la loro esistenza. Sanciscono gli atteggiamenti, i comportamenti e i pensieri della collettività. I fattori indagati sono soprattutto:
    • Prodotti e tecnologia;
    • Ambiente naturale e cambiamenti apportati dall’uomo all’ambiente;
    • Supporto e relazioni;
    • Atteggiamenti;
    • Servizi, sistemi e politiche. 

Le funzioni e le strutture corporee esaminate si concentrano su nove domini generici, a loro volta suddivisibili in sotto-domini più specifici: mentale; sensoriale; della voce e dell’eloquio; dei sistemi cardiovascolare, ematologico, immunologico e respiratorio; degli apparati digerente, endocrino e metabolico; genito-urinarie e riproduttivo; neuro-muscolo-scheletriche connesse al movimento; e della cute e delle strutture correlate.

Eventuali problematiche in queste due aree comportano la menomazione, intesta come compromissione nel funzionamento e nelle strutture corporee, di carattere stabile o transitorio.

L’attività e la partecipazione vengono valutate alla luce di nove domini generici, anch’essi suddivisibili in sotto-categorie: apprendimento e applicazione delle conoscenze; compiti e richieste generali; comunicazione; mobilità; cura della propria persona; vita domestica; interazioni e relazioni interpersonali; aree di vita principali; e vita sociale, civile e di comunità.

Se il soggetto presenta difficoltà nel portare a termine un’azione o un’attività in uno di questi domini si parla di limitazioni dell’attività. Se il soggetto ha invece difficoltà nel tipo o nel grado di coinvolgimento in una di queste dimensioni si parla di restrizioni alla partecipazione. In questa nuova formulazione, una persona presenta una disabilità se presenta limitazioni dell’attività e restrizioni alla partecipazione, secondo quanto sancito dai fattori ambientali. Si abbandona dunque l’approccio biologico in favore del funzionamento adattivo, più predittivo di necessità di intervento.

Da quanto detto, si evince come la nuova nomenclatura passi da una posizione etichettante ad una più accogliente: essa, infatti, elimina del tutto il termine handicap (sostituito con restrizione della partecipazione), e si focalizza sulle funzioni/strutture corporee e sulle attività (con particolare riguardo ai punti di forza, inseribili in un programma di intervento migliorativo finalizzato all’incremento della qualità di vita).

Si sdogana inoltre il modello lineare intendendo la disabilità come la risultante dell’interazione dinamica tra fattori personali e ambientali (approccio biopsicosociale). È notevole anche il passaggio dal focus verso le mancanze e le situazioni di svantaggio delle persone con disabilità ad una situazione più accogliente, che punta ad elaborare un profilo completo e dinamico della persona disabile sulla base dei suoi punti di forza e delle sue difficoltà. 

3. Nascita dell’ICD-10 e dell’ICF

Alla luce della nuova nomenclatura, l’OMS introduce due importanti strumenti diagnostici, ancora oggi molto usati: l’ICD (International Classification of Diseases), arrivato alla sua decima edizione; e l’ICF (International Classification of Functioning, Disability and Health). I due manuali sono tra loro complementari: l’ICD-10, infatti, aiuta a indagare l’aspetto eziologico della disabilità, configurandosi come strumento per la diagnosi delle malattie, dei disturbi o di altri stati di salute che si accompagnano alla disabilità; l’ICF, invece, offre informazioni aggiuntive relative al funzionamento della persona nei diversi ambiti sopra elencati.

Questi due strumenti permettono un’importante considerazione: due persone con la stessa condizione medica possono avere diversi livelli di funzionamento, e due persone con lo stesso livello di funzionamento possono avere due condizioni di salute differenti. Si considera quindi finalmente la variegatura del panorama in fatto di disabilità.

3.1 ICF e aggiornamento della terminologia legata alla disabilità

Parlando specificatamente dell’ICF, lo strumento che ha permesso più passi avanti in fatto di terminologia inclusiva, esso è un sistema di classificazione che intende la disabilità come una complessa interazione tra condizioni di salute dell’individuo (ovvero delle condizioni biofisiche sottostanti) e fattori personali e ambientali (soprattutto in termini di funzionamento adattivo). Lo scopo dell’ICF è riuscire a raccogliere e scambiare in modo unitario e standardizzato le informazioni sul funzionamento, dominio-specifico o generalizzato, in situazioni di disabilità, e sui relativi interventi sanitari.

Alla luce della nomenclatura OMS del 2001, l’ICF si serve, per stilare un profilo biopsicosociale della persona, di alcuni qualificatori, con valore da 0 (assenza di criticità) a 4 (totale compromissione). Per le funzioni e le strutture corporee si adotta un qualificatore generico atto ad individuare il livello di compromissione organico. Per l’attività e la partecipazione, invece, i qualificatori sono la Performance e la Capacità: la Performance descrive la difficoltà con cui viene realizzata un’attività, tenendo in considerazione i fattori ambientali che ne influenzano lo svolgimento; la Capacità, invece, descrive la difficoltà con cui viene svolta un’attività in assenza di fattori ambientali intervenienti.

Come si può notare, il contesto viene qui inteso come l’insieme dei fattori ambientali e personali, capace di attuare la sua azione di modellamento a tutti i livelli di vita dei soggetti (fisico, psicologico, personale, internazionale). Riguardo i fattori ambientali, in questa nuova nomenclatura acquistano un ruolo preminente: si rilevano e si distinguono infatti Fattori ambientali facilitatori (o di protezione; sono quei fattori capaci di operare da “ammortizzatori” di fronte a compromissioni psicofisiche oggettive) e Fattori ambientali barriera (o di rischio; sono quei fattori che aggravano la situazione patologica, o conducono ad un suo più rapido decorso).

L’ICF ha l’indubbio vantaggio di avere una valenza universale: con la sua suddivisione in aspetti positivi (o punti di forza) e aspetti negativi (o criticità), si offre come un modello applicabile a tutte le persone e alle più disparate condizioni di salute. L’ICF, dunque, riesce a riunificare l’umanità, abbattendo le barriere della disabilità. Infine, l’ICF si mostra come strumento competitivo: viene infatti annualmente aggiornato dall’OMS, fornendo sempre spunti nuovi di riflessione e nuovi approcci socio-sanitari attuabili. 

Bibliografia e Sitografia

  1. Zanobini M., Usai M.C., Psicologia della disabilità e dei disturbi dello sviluppo. Elementi di riabilitazione e di intervento, FrancoAngeli, Milano, 2019, pp. 
  2. https://iris.who.int/handle/10665/41003 (OMS, 1980). 
  3. https://iris.who.int/bitstream/handle/10665/42417/9788879466288_ita.pdf?sequence=4 (Introduzione dell’ICF alla luce dell’OMS, 2001).