DISABILITÀ E DISTURBO DELLO SPETTRO AUTISTICO: IL SOSTEGNO AI CAREGIVER FAMILIARI E LA FUNZIONE DI ADVOCACY
A cura di: Fidalma Valentina Ritondò
INTRODUZIONE
La definizione di disabilità è rimasta a lungo radicata all’aspetto medico, tuttavia, negli ultimi decenni ha iniziato ad affermarsi un nuovo paradigma della disabilità che la identifica non più esclusivamente con le condizioni di salute, bensì anche con le barriere – di natura ambientale e/o sociale – che impediscono la completa inclusione della persona con disabilità (Unicef, 2013). Tali aspetti risultano ulteriormente meritevoli di attenzione nel momento in cui la persona portatrice di disabilità è un minore. I minori disabili risultano, a parità di condizioni economiche e sociali, la categoria di soggetti più vulnerabili in assoluto e sono portatori di specifici bisogni che necessitano di particolare attenzione (Moro, 2008).
Il termine inglese caregiver è ormai entrato stabilmente nell’uso comune per indicare la persona che “si prende cura” e si riferisce alle persone che assistono per un periodo continuativo di tempo un loro congiunto ammalato e/o disabile non autosufficiente. La persona che si prende cura di un proprio familiare è meglio definita come caregiver informale o caregiver familiare per distinguerla dai caregiver formali, i quali esercitano la loro attività di cura con una corrispettiva retribuzione.
L’attività di cura a favore del familiare con una disabilità per la società assume un importante valore in termini economici: se questa funzione venisse meno lo Stato dovrebbe farsi carico di alti costi per il ricovero e il mantenimento della persona presso una struttura specializzata. Per tutti questi motivi, i caregiver familiari o informali, anche tramite le numerose associazioni presenti in Italia, chiedono alle istituzioni il riconoscimento formale dei propri diritti (ISSalute, 2021).
In questo contesto si colloca la centralità delle attività di advocacy. Fare advocacy significa poter esprimere la propria opinione o essere sostenuti nel farlo, è quell’azione volta a far sì che i punti di vista della persona siano ascoltati e – soprattutto – compresi (Banks, 1999).
1. La famiglia di fronte alla disabilità
La nascita di un bambino con una disabilità può destabilizzare gli equilibri intra-familiari ed extra-familiari. Il sistema familistico, in Italia, predilige la permanenza della persona con disabilità presso il nucleo familiare, il quale – necessariamente – si troverà nelle condizioni di dover riscrivere la propria mappa relazionale, rielaborare il modo di vivere la propria quotidianità, i propri ritmi e le dinamiche interne al gruppo, adattando i propri spazi e tempi in relazione alle esigenze del nuovo membro della famiglia. Per tale ragione la relazione di aiuto si concretizza nella presa in carico dell’intero sistema-famiglia, seppur la richiesta di intervento provenga specificamente dalla persona con disabilità (Zini, Miodini, 2015). Nella maggior parte dei casi, la disabilità di un membro della famiglia determina importanti ripercussioni su tutto il nucleo familiare in quanto le problematiche della persona con disabilità diventano comuni all’intero nucleo (Assennato, Quadrelli, 2012).
1.2 La famiglia di un minore con Disturbo dello Spettro Autistico
Nel momento in cui si ottiene una diagnosi di Disturbo dello Spettro Autistico la famiglia risulta particolarmente smarrita a causa delle caratteristiche stesse del disturbo e delle sue diverse manifestazioni sintomatiche. Inoltre, i comportamenti problema mal interpretati e i miti che ancora gravitano attorno al disturbo espongono i genitori ad un elevato grado di vulnerabilità, oltre che al senso di inadeguatezza e di colpa (Marrone, 2015).
La diagnosi costituisce il punto di partenza per poter pianificare un trattamento efficace nonché adeguato ai bisogni del bambino; una mancanza di conoscenza sulle pratiche diagnostiche può alterare l’efficacia del trattamento e portare ad un aumento di disagio emotivo nei genitori: molti genitori vivono infatti esperienze stressanti, come i problemi comportamentali dei bambini e le difficoltà nella gestione della quotidianità. (Osborne, Reed, 2012).
2. Interventi a sostegno del nucleo familiare di una persona con disabilità
Gli operatori coinvolti nel processo di aiuto di una persona con disabilità, frequentemente, si trovano impegnati a gestire modalità relazionali ambivalenti espresse all’interno del sistema-famiglia: da un lato il bisogno di iperprotettività nei confronti della persona con disabilità e, dall’altro, il desiderio di delega totale al servizio (Zini, Miodini, 2015). Pertanto, gli interventi a favore di una persona con disabilità non possono prescindere dalla completa analisi dei bisogni e delle dinamiche interne all’intero nucleo familiare.
Il nucleo familiare della persona con Disturbo dello Spettro Autistico si trova dinanzi al complesso e articolato compito di cura che può variare a seconda del livello di funzionamento, tuttavia, si tratta di una condizione che dura per l’intero arco della vita e che richiede un impegno costante (Matussi, 2016). Le caratteristiche tipiche del Disturbo dello Spettro Autistico, quale disturbo pervasivo del neurosviluppo, rendono la situazione particolarmente condizionante per l’intero nucleo familiare, eppure, figure spesso sottovalutate e non riconosciute nella cura di patologie di questo tipo sono proprio i caregiver.
L’attività di cura svolta dal caregiver familiare consiste in un vero e proprio lavoro, che non si è scelto ma che viene svolto per l’affetto nei confronti del proprio caro; a fronte di tale impegno, spesso la persona che si prende cura non gode del necessario riposo, di giorni di malattia, di tempo libero o di tempo per potersi occupare delle proprie condizioni di salute (ISSalute, 2021).
2.1 Il parent training nel Disturbo dello Spettro Autistico
Il parent training è una tecnica di intervento che ha lo scopo di insegnare ai genitori quelle abilità necessarie per contrastare situazioni complesse e problematiche (Vio, Marzocchi, Offredi, 1999).
Letteralmente parent training vuol dire “allenamento genitore”, si tratta di un’espressione che fa riferimento al potenziamento delle abilità genitoriali; prevede la formazione di competenze educative, vale a dire quelle competenze specifiche che permettono di contenere i comportamenti problema del bambino nella dimensione della vita quotidiana (Poliambulatorio Minerva, 2021).
Il parent training è uno specifico programma di intervento finalizzato a formare i genitori su conoscenze specifiche e tecniche comportamentali per far fronte alle esigenze e ai comportamenti problema del bambino, pertanto, tali interventi non sono rivolti esclusivamente ai genitori con figli in età prescolare, bensì anche ai caregiver di bambini in età scolare/adolescenziale.
Le problematiche comportamentali spesso connesse al Disturbo dello Spettro Autistico tendono a manifestarsi in forme differenti a seconda della fase di sviluppo, per tale ragione i genitori dovrebbero essere costantemente seguiti e formati, al fine di padroneggiare gli strumenti adeguati a promuovere lo sviluppo psico-fisico del bambino in relazione alla sua età ed al contesto di vita e ottimizzare la qualità di vita del bambino e dell’intera famiglia durante il percorso di crescita (Bearss et al., 2015).
Il parent training porta ad un miglioramento nell’autopercezione di competenza e ad una riduzione dei livelli di stress (Poliambulatorio Minerva, 2021) nonché incoraggia il ruolo dei genitori quali agenti attivi nell’intervento poiché insegna loro strategie finalizzate a prevenire e/o rispondere ai comportamenti problema (Aita Centro Scientifico di Neuropsichiatria, 2020).
Studi hanno dimostrato che un intervento risulta maggiormente efficace quando i genitori sono coinvolti rispetto a quando l’intervento viene effettuato esclusivamente in terapia: insegnando ai genitori tecniche comportamentali, viene facilitato il mantenimento e la generalizzazione delle abilità che vengono insegnate al bambino in terapia. Di conseguenza i genitori dispongono della possibilità di mettere in pratica le nuove competenze acquisite in un ambiente diverso dal setting di terapia (ad esempio, a casa o nei luoghi pubblici); in quest’ottica, la quantità di intervento che il bambino riceve si intensifica se è il genitore stesso a mettere in atto le tecniche di intervento apprese (Aita Centro Scientifico di Neuropsichiatria, 2020).
3. Disabilità e advocacy: uno sguardo introduttivo
La pratica dell’advocacy è nata e si è sviluppata in area anglosassone, inizialmente nell’ambito della disabilità e della salute mentale (Campanini, 2013).
Le definizioni del concetto di advocacy risultano molteplici; la traduzione del termine è complessa poiché non trova una corrispondenza univoca in italiano. Letteralmente significa “difesa, promozione, capacità di perorare una causa in favore di un altro” (Campanini, 2013). Tuttavia, è importante non fermarsi alla traduzione letterale bensì riflettere sui diversi significati che il termine può assumere nei diversi ambiti di applicazione, tra cui quello della tutela dei diritti dei minori disabili (Calcaterra, 2014).
«L’advocacy è una pratica tesa ad abilitare gli utenti affinché diventino capaci di articolare i propri bisogni e di far valere il rispetto dei propri diritti. Quando gli utenti non sono in grado di parlare nel loro interesse […], sarà il loro patrocinatore che, in base a una sua valutazione, deciderà quali azioni intraprendere per salvaguardare gli interessi della persona che rappresenta» (Banks, 1999, p.108).
3.1 L’advocacy nella tutela dei minori disabili e delle loro famiglie
L’advocacy può riguardare:
- Interventi di caso, a livello micro (con i singoli utenti o con le famiglie);
- Interventi di sistema, a livello macro (volti a cambiare la legislazione vigente e generare cambiamenti strutturali).
Nel caso specifico di minori con disabilità e delle loro famiglie si tratta prevalentemente di advocacy di caso (Calcaterra, 2014).
Per quanto concerne il termine che in italiano indica l’operatore di advocacy, generalmente, si utilizza “portavoce” proprio per sottolineare «la distintiva funzione di questo operatore nel rappresentare la voce dei minori, aiutandoli a parlare per sé o facendolo al posto loro quando sono in difficoltà» (Calcaterra, 2014, p.15).
La tutela dei minori è un ambito complesso e delicato, spesso i bambini sanno cosa li aiuterebbe a vivere meglio, bensì – frequentemente – non dispongono degli strumenti necessari per poter esplicare chiaramente i loro pensieri e concettualizzarli in maniera precisa. L’advocacy, in questo quadro, risulta essere una pratica professionale volta a rappresentare i loro punti di vista per far sì che possano partecipare attivamente e consapevolmente alle decisioni che riguardano la loro vita, inoltre, comprendere pienamente la prospettiva dei minori risulta essere un elemento chiave per raggiungere dei risultati positivi, dal momento che l’esclusione di questi dai processi decisionali accresce il rischio di fallimento dei progetti educativi (Boylan, Dalrymple, 2011).
Coinvolgere i minori e le loro famiglie – a seguito di una adeguata attività informativa – si configura quale parte centrale delle funzioni di advocacy, funzioni che dovrebbero essere assunte dai vari professionisti dell’aiuto (Campanini, 2013), i quali dispongono della possibilità di ascoltare e capire il punto di vista della persona che versa in condizioni di vulnerabilità e, pertanto, la loro funzione si concretizza nel far sentire la loro voce e di utilizzare la propria professione affinché le persone con cui operano vengano ascoltate nonché i loro punti di vista rispettati e compresi (Fargion, 2016).
«Gli operatori che lavorano con i minori, dunque, si avvalgono delle funzioni di advocacy per sostenere i bambini e i ragazzi, coinvolti nelle situazioni di difficoltà, nel divenire protagonisti al pari degli adulti nella costruzione dei percorsi verso il proprio benessere» (Calcaterra, 2014, p.50).
4. Il diritto dei minori ad esprimere le proprie opinioni ed essere ascoltati
Quando si agisce nell’interesse superiore del minore è importante che questo sia considerato soggetto attivo nel processo decisionale. «È proprio la possibilità di esprimere le proprie considerazioni ed essere in questo ascoltati dagli adulti che rappresenta l’interesse dei minori, così che gli adulti possano decidere tenendo conto anche dell’opinione di quello specifico bambino o ragazzo coinvolto» (Calcaterra, 2014, p.54). Tale aspetto risulta particolarmente importante quando si tratta di minori con disabilità, nella finalità di mettere la persona nelle stesse condizioni degli altri e di offrirle pari opportunità e strumenti necessari per vivere adeguatamente nella società.
In passato, l’approccio al minore rifletteva una situazione diversa: nella Dichiarazione di Ginevra si dichiarava il bisogno del bambino di essere protetto nonché accudito e cresciuto nella consapevolezza che i suoi talenti vanno messi al servizio del prossimo, bensì non venivano realmente presi in considerazione i diritti di partecipazione dei minori (Boylan, Dalrymple, 2011; Lega delle Nazioni, 1924). Anche la successiva Dichiarazione Universale dei Diritti del Fanciullo del 1959 ha mantenuto un’impostazione paternalistica considerando i minori come soggetti da proteggere; in questa Dichiarazione compare per la prima volta il concetto di “interesse superiore del minore” (ONU, 1959, art 3.1).
Soltanto nel 1970 si riconosce il diritto dei minori di esprimere le proprie opinioni ed essere ascoltati: nella Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza è sancito il diritto dei bambini a essere ascoltati in tutti i processi decisionali che li riguardano e il corrispettivo dovere degli adulti di tenere in considerazione le loro opinioni (UNICEF, 2004; Convenzione Internazionale sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, 1959, art.12). Tale documento dispone che gli Stati Parti garantiscono al fanciullo capace di discernimento il diritto di esprimere liberamente la propria opinione su ogni questione che lo riguarda; le opinioni del fanciullo sono debitamente prese in considerazione tenendo conto della sua età e del suo grado di maturità (Calcaterra, 2014). A seguito della ratifica di tale Convenzione ha acquisito notevole forza l’idea secondo cui per i minori seguiti dai servizi sociali e sanitari sia importante avere la possibilità di usufruire di interventi di advocacy.
Anche la Costituzione Italiana stabilisce che «tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione» (Cost., art 21.1), pur non essendovi uno specifico riferimento ai minori l’uso del termine onnicomprensivo “tutti” riguarda anche il minore, il quale deve poter esprimere le proprie opinioni nonché ottenere che le stesse siano effettivamente ascoltate, comprese e attentamente valutate da parte degli adulti che sono tenuti a tenerne conto (Moro, 2008).
Per ascoltare realmente ciò che il minore ha da dire è necessario non fermarsi a quanto esprime attraverso le parole bensì fare attenzione anche a quanto esprime attraverso il canale della comunicazione non verbale. È opportuno assicurarsi che il minore abbia realmente compreso il senso delle decisioni che riguardano la sua vita e per far ciò è necessario utilizzare un linguaggio adeguato alla sua età (Calcaterra, 2014). Il minore, inoltre, ha il diritto di avere informazioni relative sia alla sua situazione sia alle possibili conseguenze delle decisioni adottate per avere la possibilità di formarsi un’opinione completa e consapevole circa le questioni che lo riguardano (Zini, Miodini, 2015; Calcaterra, 2014).
CONCLUSIONI
I minori disabili hanno i medesimi diritti di ogni altro bambino: se viene data loro l’opportunità di crescere alla pari degli altri bambini, questi potranno condurre vite appaganti e contribuire alla vita sociale, culturale ed economica (Comitato Italiano per l’UNICEF ONLUS, 2013). È fondamentale coinvolgere i minori disabili nei processi decisionali che riguardano la propria vita e tenere costantemente presente il principio di autodeterminazione della persona che consiste nella capacità di scelta autonoma e indipendente di ogni individuo e nel riconoscimento del diritto alla libertà di fare le proprie scelte e prendere le proprie decisioni nel processo di aiuto (Assennato, Quadrelli, 2012; Banks, 1999).
«I bambini e gli adolescenti con disabilità sono al centro degli sforzi per costruire società inclusive, non solo come beneficiari, ma anche come agenti del cambiamento» (Comitato Italiano per l’UNICEF ONLUS, 2013).
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