Il caregiver del malato psichiatrico
Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, il termine Salute connota “uno stato di benessere completo, sia sul piano fisico, che mentale e sociale”.
“Salute fisica” e “salute mentale” non possono essere considerate come separate l’una dall’altra.
In particolare, con l’espressione salute mentale si fa riferimento ad una condizione in cui le funzioni mentali sono in un buono stato tale da garantire lo svolgimento di attività produttive, l’instaurarsi di relazioni sociali soddisfacenti, la capacità di adattamento ai cambiamenti e la capacità di fronteggiare le situazioni avverse; con l’espressione malattia mentale, invece, si fa riferimento all’insieme di quelle condizioni, i disturbi mentali, caratterizzate da alterazioni nei pensieri, nei comportamenti e/o nell’umore, accompagnate da sofferenza e, in alcuni casi da deterioramento delle funzioni mentali.
Al mondo circa 450 milioni di persone soffrono di disturbi neurologici, mentali e comportamentali.
Nei paesi occidentali, l’insieme delle malattie mentali costituisce una delle principali cause d’invalidità e di morte prematura.
L’impatto economico della morbilità psichiatrica è molto elevato, con stime conservative pari al 3-4% del PIL dell’Unione Europea.
L’Associazione Psichiatrica Americana (USA), fin dal 1952 si è occupata di creare uno strumento, un testo base di riferimento, basato su un linguaggio comune ed univoco per le diverse scuole di pensiero e teorie. Risultato finale di questo lavoro è il “Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali” denominato DSM (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders) che viene regolarmente riaggiornato (attualmente è in corso il DSM-V).
Il criterio scelto dai compilatori del DSM è quello della descrizione estremamente accurata del disturbo e nella sua relativa catalogazione.
Insieme al DSM, si colloca l’ICD 10 (International Statistical Classification of Diseases and related health problems) usato dall’OMS per la classificazione internazionale delle malattie.
Una data fondamentale relativa alla tematica della malattia psichiatrica è il 1978, anno in cui attraverso l’entrata in vigore della legge 180 (conosciuta anche con il nome del suo promotore, lo psichiatra Franco Basaglia) si è stabilita la chiusura degli istituti psichiatrici ed il riconoscimento ai malati psichiatrici del diritto ad un’adeguata qualità della vita.
A seguito della legge 180, il malato psichiatrico non entra più nei manicomi ma accede ai servizi territoriali per prevenire, curare, riabilitare. Sia il paziente che i suoi familiari possono accedere a tali servizi; c’è inoltre un riconoscimento dei diritti di cittadinanza del malato mentale.
Nel 1994 termina il lungo processo, avviato dalla legge 180, che porta alla chiusura dei 144 manicomi italiani.
Attualmente coloro che si prendono cura del malato psichiatrico sono: gli psichiatri, gli psicologi, gli psicoterapeuti, gli infermieri, gli assistenti sociali, gli educatori e tutti coloro che operano in un ambito istituzionale attraverso DSM (Dipartimenti Salute Mentale), SPDC (Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura), oppure Comunità Terapeutica o Clinica per malattia nervose e mentali, Centro Diurno, Comunità Alloggio, Gruppo appartamento, etc. (Caregiver Formali) ed ovviamente in primis i suoi familiari (Caregiver Informali o Familiari).
Quando si parla di caregiver familiare, si fa riferimento alla persona, in genere un parente, oppure un amico o conoscente, che svolge le attività di caregiving, ossia il compito di prendersi cura della persona cara malata (Steele et al. 2010).
Il caregiver si trova dunque a dover assistere ogni giorno la persona con disabilità psichica e ad essere necessariamente sempre pronto a farsi carico di lui/lei.
Tale situazione si rivela molto gravosa per il benessere del caregiver; infatti i parenti che si prendono cura di un paziente psichiatrico vivono uno stress considerevole e costante, e che la salute fisica dei parenti, nonché il loro benessere mentale può risultarne seriamente compromesso (Cuijpers e Stam 2000).
Heru e Ryan (2004) definiscono il carico del caregiver come una misura delle difficoltà soggettive e oggettive che riguardano la persona che si prende cura del malato, e il modo in cui la sua vita è cambiata dal punto di vista finanziario, psicologico e sociale a causa della malattia.
Possono essere distinti due tipi di carico del caregiver: il carico oggettivo che riguarda i sintomi attuali e i comportamenti del paziente e le conseguenze di questi sul caregiver; e il carico soggettivo che riguarda invece le conseguenze psicologiche della malattia sul caregiver. Questi due tipi di carico sono tra loro associati, in particolare il carico oggettivo sembrerebbe incrementare quello soggettivo (Cuijpers Stam 2000).
Alcune ricerche (Östman et al., 2001; Östman, Hansson, 2004) mettono in evidenza come i caregiver spesso tendano a rinunciare al tempo libero, abbandonino il lavoro, siano isolati e nel 40% dei casi è riportato lo sviluppo di un disturbo mentale nei caregiver stessi.
L’insorgenza del disagio dunque, coinvolgendo anche altre persone, provoca in loro un certo grado di stress che può avere esito in semplici sentimenti di ansia e preoccupazione (Glozman, 2004), ma anche in veri e propri traumi, con ripercussioni sul decorso della malattia del familiare.
Infatti, se da un lato il funzionamento familiare è compromesso dalla malattia del paziente, dall’altro, un malfunzionamento familiare costituisce a sua volta un fattore di rischio per la malattia.
La necessità di una stretta collaborazione tra i servizi offerti dai professionisti e i familiari è una parte essenziale di una buona cura. È importante, da un lato capire la natura precisa delle esperienze stressanti che vivono i membri della famiglia del paziente, e dall’altro osservare come le famiglie stesse contribuiscono alla gestione della malattia del paziente (Dore e Romans 2001).
Caregiver e malato divengono una diade inscindibile dove il peggioramento della salute di uno provoca inevitabilmente un peggioramento delle condizioni dell’altro (Ursini G., Nardini M., 2007).
All’interno del gruppo famiglia, è la relazione di coppia a risentire maggiormente della malattia: infatti sono soprattutto i partner a condividere molti dei problemi fronteggiati dai pazienti, inclusi i cambiamenti nel ruolo, nelle abitudini di vita e nella relazione stessa essendo, e tocca spesso a loro di assumere il ruolo di caregiver.
Vanderweker et al. Hanno riscontrato che il 13% dei caregiver presenta i criteri per la diagnosi di un disturbo psichiatrico a distanza di anni dall’esordio della malattia del partner.
La causa sembrerebbe essere soprattutto l’incessante supporto emotivo fornito al partner malato, definito da Glozman “emotional donation”, oltre che all’osservazione dell’eventuale peggioramento delle condizioni del paziente e la percezione della sua sofferenza, una diminuzione nella qualità della vita.
Sarebbe il vissuto emotivo ad “essere in trappola”, come se ogni spazio personale fosse invaso e il prendersi cura del malato fosse percepito come un obbligo.
Esperienze emotivamente, fisicamente e psicologicamente gravose sono rintracciabili nell’esperienza di caregiving di ogni patologia psichiatrica; tuttavia per quanto concerne nello specifico i Disturbi dell’Umore, diversi studi (Heru e Ryan, Perlick, Post ) hanno tentato di indagare se fosse più faticoso per il caregiver affrontare un episodio maniacale o depressivo: sono stati trovati dati contraddittori su quanto influiscano sul carico gli episodi delle diverse polarità. Secondo Heru e Ryan (2004) i caregiver di pazienti con il Disturbo Bipolare esperiscono più carico e tensione, e minore senso di appagamento nel prendersi cura del membro della famiglia malato, rispetto ai caregiver di pazienti con la depressione unipolare. Una possibile spiegazione potrebbe essere che episodi maniacali o ipomaniacali, che presenta il paziente bipolare, abbiano sintomi più dirompenti e che il corso della malattia sia più caotico rispetto a quelli depressivi: il risultato di ciò corrisponderebbe al risultato ottenuto dell’aumento del carico percepito.
Contrariamente Perlick e collaboratori (1999) affermano che il paziente maggiormente chiuso in sé stesso e irritabile, si associa a livelli particolarmente alti di carico del caregiver, dati che suggeriscono che gli episodi depressivi potrebbero porre un più grande carico sui parenti rispetto agli episodi di mania. Questi risultati sono confermati da Post (2005) che sottolinea come la depressione si associ a più alti tassi di disfunzionalità e mortalità del paziente rispetto alla mania, e che perciò impone un carico complessivo maggiore sulla famiglia del paziente rispetto alla mania.
Al di la della polarità dell’episodio, il carico del caregiver si pensa sia collegato, piuttosto che alla diagnosi del paziente, a elementi come il suo livello di funzionamento (Hsaui et al. 2002) e alle credenze dei caregiver circa il fatto che i loro parenti abbiano il controllo sui loro sintomi o meno (Perlick et al. 1999).
E’ necessario tenere in considerazione l’utilità di un intervento di tipo integrato in quanto tale intervento ha un effetto maggiore nella stabilizzazione dell’umore, nella prevenzione della ricorrenza della malattia, nel mantenimento della normotimia (Miklowitz 2008), e nel potenziamento del funzionamento interpersonale dell’individuo (Miklowitz e Johnson 2009) rispetto all’effetto della sola farmacoterapia. Tale intervento deve coinvolgere tutto l’ambiente in cui il malato psichiatrico è inserito.
Una ricerca condotta da Harrison, sottolinea che i fattori in grado di predire la severità della situazione dei caregiver includono, oltre alla sintomatologia negativa dei pazienti, anche la scarsa conoscenza della malattia e la convinzione che i sintomi dipendano dalla personalità del paziente più che dalla malattia (Harrison et al., 1998).
Un ruolo importante per colui o coloro che si prendono cura del malato psichiatrico sembrerebbe essere svolto dalla Psicoeducazione.
La Psicoeducazione si configura come un intervento psicosociale il cui scopo principale consiste nel fornire informazioni ai pazienti o alle persone che di loro si prendono cura, relative alla malattia che li riguarda (Rouget e Aubry, 2007). L’aumento delle conoscenze sull’argomento sembrerebbe infatti migliorare la capacità che le persone hanno di mettere in atto strategie funzionali per far fronte alle situazioni critiche cui la malattia le mette di fronte, con un conseguente aumento del controllo percepito della situazione che consente a sua volta una maggiore capacità di gestione del problema. (Linda Franchini et al.)
La psicoeducazione si pone l’obiettivo di fornire ai pazienti e/o ai loro familiari un approccio pratico e teorico alla comprensione della malattia e alle capacità di affrontare le sue conseguenze, provando a fargli conoscere la complessa relazione che intercorre tra i sintomi, la personalità, l’ambiente interpersonale, gli effetti collaterali dei farmaci, rendendoli maggiormente responsabili nella gestione della malattia (Colom e Lamb 2005).
L’intervento psicoeducativo può essere indirizzato sia al paziente con una diagnosi di malattia mentale, sia al caregiver che si prende cura di lui, o ai membri della famiglia di cui fa parte il paziente.
Gli interventi psicoeducativi inoltre, relativamente alla famiglia sono mirati a fornire supporto ai parenti.
Adattarsi alla malattia non è semplice e ciò, secondo Sharpe e Curran significa cercare di salvaguardare il miglior equilibrio possibile, mantenendo una visione positiva di sé e del mondo, e prepararsi ad affrontare le modificazioni che la patologia, soprattutto quella cronica, introduce nella propria vita.
Essa rappresenta per l’individuo quella che Bury ha definito “biographical disruption” (rottura biografica) e cioè un assalto non solo al sé fisico di una persona, ma anche al suo senso di identità.
Secondo l’autore, il significato e il contesto della malattia non possono essere separati e l’esperienza del paziente cronico è contrassegnata non solo dalla connotazione personale che la malattia inevitabilmente acquista, ma anche da quella sociale e culturale.
Rocchi et al. sottolineano, infatti, come sia raro che il paziente entri da solo nella malattia, dato che tutta la famiglia ne risente immediatamente le conseguenze: la malattia, infatti, costituisce un evento critico che costringe il gruppo familiare a dover rivedere l’equilibrio tra i bisogni di ciascun membro, a ristrutturare i patterns comportamentali e relazionali ed a riorganizzarsi internamente al fine di favorire i processi di coping e di adattamento.
A cura della dott.ssa Sara D’Ambrosio