La produttività di gruppo: quando 2+2 diventa 5
La performance e la produttività del gruppo in ambito organizzativo rappresentano un tema di grande interesse per molti ricercatori e sono, da oltre un secolo, al centro di una vasta gamma di studi finalizzati a rispondere all’interrogativo “I gruppi producono più della somma delle loro parti?”. O, prendendo in prestito le parole del professore e psicologo S. Alexander Haslam: “Due più due fa davvero cinque o la verità è un assai più deludente tre e mezzo?”.
Inerzia sociale
Le prime ricerche sull’argomento, risalenti alla fine dell’Ottocento, sembrano dimostrare come, in effetti, il lavoro di gruppo comporti una significativa perdita di produttività rispetto al lavoro individuale. Questo fenomeno, in seguito chiamato “inerzia sociale”, è stato confermato anche da studi successivi (negli anni ‘70 e ‘80) ed è stato spiegato come una forma di “malattia sociale” causata dalla percezione di un minor senso di responsabilità individuale all’interno del contesto di gruppo.
Sebbene la comunità scientifica non sia concorde sulle ragioni di questa “deresponsabilizzazione” percepita, alcuni studiosi (come, ad esempio, il Professor Ivan Dale Steiner) considerano tra i fattori più determinanti l’assenza di coordinamento e la perdita di motivazione.
Facilitazione sociale
Gli studi condotti dallo psicologo Norman Triplett nel 1898, confermati da ulteriori esperimenti svolti negli anni ‘40 da Elton Mayo, tuttavia, mostravano risultati diametralmente opposti. Secondo quella che divenne, poi, la teoria della facilitazione sociale, infatti, la semplice presenza di altre persone è in grado di provocare nell’individuo una maggiore spinta e attivazione fisiologica.
Gli stessi studi, tuttavia, hanno evidenziato come questa attivazione influenzi quella che è la risposta dominante (ovvero quella più abituale) dell’individuo e, di conseguenza, abbia un effetto positivo soltanto quando la persona è già “ben disposta” – perché magari si è esercitata a lungo o ha una particolare facilità e predisposizione a svolgere l’attività di riferimento.
Identità sociale
L’inerzia e la facilitazione sociale sono, in realtà, due facce della stessa medaglia. Considerando il gruppo in quanto mero insieme di individui, infatti, questi studi pionieristici non tenevano conto di un elemento estremamente determinante all’interno delle organizzazioni: l’identità sociale.
Secondo la Social Identity Theory, elaborata dagli psicologi sociali Henri Tajfel e John Turner negli anni ’70, oltre all’identità personale ciascuno di noi si categorizza anche in base ai gruppi sociali a cui appartiene. Questi gruppi possono coesistere (famiglia, team di lavoro, squadra di calcetto) e variare nel corso della vita (gruppo classe, gruppo di studio, reparto produttivo/operativo). Questo significa che, in base alle circostanze, è possibile sentire più forte l’appartenenza a un dato gruppo rispetto che ad un altro gruppo: durante un incontro di lavoro, ad esempio, la propria identità sociale di “tifoso di una squadra di calcio” sarà sicuramente meno saliente che durante una partita allo stadio, mentre risulterà molto rilevante la propria appartenenza a un particolare reparto o team di progetto.
Applicando la teoria dell’identità sociale alla produttività dei gruppi, alcuni studi più recenti hanno dimostrato come sia proprio questa la chiave per comprendere in quali casi due più due può diventare cinque e in quali, invece, bisogna accontentarsi del tre e mezzo.
Quando (e perché) 2+2 diventa 5
Gli studi sull’identità sociale hanno evidenziato come la produttività aumenti significativamente quando i membri di un gruppo sviluppano un’identità sociale condivisa, purché le attività richieste e l’ambiente organizzativo siano congruenti con questa identità.
In pratica: se a un team molto coeso, che si identifica fortemente con il proprio gruppo, viene richiesto di fare qualcosa che appare come contrario agli interessi e ai valori del gruppo stesso, si assisterà a una sorta di “ostruzionismo”, manifestato sotto forma di una peggiore performance e di una minore produttività. Se, invece, la richiesta è in linea con quanto il team ritiene giusto e positivo per gli interessi del gruppo, si assisterà a un processo di facilitazione sociale, in cui gli uni si aiutano con gli altri per ottenere il miglior risultato possibile (un esempio di questo fenomeno, in ambito scolastico, è il peer learning).
Tuttavia, c’è un ulteriore fattore, molto determinante e spesso trascurato nell’ambito degli studi sperimentali: da chi proviene la richiesta. All’interno delle organizzazioni, le richieste di un maggiore sforzo e di una maggiore produttività vengono, solitamente, da un superiore o da un manager, da una figura che ricopre un ruolo di potere nei confronti del team e, per questo motivo, non sempre viene percepito come membro del gruppo. Il fatto che la richiesta provenga da qualcuno che viene visto come “esterno” al gruppo (come nel caso degli sperimentatori) o, ancora peggio, come appartenente ad un altro gruppo (“i piani alti”, “il management”), può far sì che questa venga accolta malvolentieri e crei un clima di sfiducia e ostilità reciproca.
Per ottenere una maggiore collaborazione, una maggiore soddisfazione e una maggiore produttività è, quindi, necessario che tutti i membri dell’organizzazione (leader e manager inclusi) si identifichino con l’organizzazione stessa – al netto dell’appartenenza ai singoli reparti o gruppi di lavoro – e costruiscano un’identità sociale condivisa.
Riferimenti bibliografici
S. Alexander Haslam, Psicologia delle Organizzazioni, Maggioli Editore 2015.