DPTS: la terapia del Disturbo Post Traumatico da Stress
Quando si configura una condizione psicologica di Disturbo Post-Traumatico da Stress DPTS l’intervento psicoterapeutico può risultare efficace nell’aiutare la persona che ha vissuto un trauma nel dare voce alla sofferenza che tale esperienza può comportare oltre che incidere sulla riduzione dei sintomi correlati allo stress del vissuto traumatico.
Andrews e coll. (2003) evidenziano come la psicoterapia del DPTS dovrebbe idealmente operare nell’eliminare tutti i sintomi del disturbo correlato al trauma e permettere pertanto al paziente un ritorno al livello di funzionamento “pre-trauma”.
Tuttavia, come frequentemente si osserva nella realtà clinica, ciò non si rivela sempre possibile, in quanto è necessario considerare come sull’efficacia del trattamento psicoterapeutico possono incidere diversi fattori quali la gravità del disturbo, la cronicità e l’eventuale comorbilità con altri disturbi psicologici.
Pertanto lo psicoterapeuta, qualora si trovi ad intervenire in casi di DPTS acuti, può porsi come obiettivi l’eliminazione dei sintomi, il ritorno al precedente livello di funzionamento e la prevenzione delle ricadute.
Nel momento in cui invece si trova ad intervenire in casi cronici di DPTS, gli obiettivi vanno realisticamente mirati nell’aiutare il paziente a gestire al meglio i sintomi e a ridurre il loro impatto sulla qualità della sua vita, sulle relazioni interpersonali e sul funzionamento generale.
I principali obiettivi del trattamento delle sindromi correlate ai traumi sono individuate da Lo Iacono (2005) nel ristabilire un senso di sicurezza personale, nel migliorare le abilità decisionali e di fronteggiamento adattivo, nel migliorare la competenza per le funzioni sociali, familiari, personali, e nel migliorare la resilienza agli stressor futuri.
Così come per altri disturbi d’ansia, anche nel caso dell’intervento sul DPTS gli elementi di provata efficacia di cui si compone un trattamento ad approccio cognitivo comportamentale sono, in primo luogo, l’informazione ovvero nella prima fase del trattamento psicoterapeutico è prevista la psicoeducazione, con cui il paziente, e talvolta anche i suoi familiari, vengono adeguatamente informati su come si sviluppa il DPTS, sulle ripercussioni che ha sulla persona che ne soffre e sulle persone vicine, e sulle caratteristiche degli altri problemi psicologici che a questo spesso si accompagnano.
Il paziente viene aiutato a comprendere ed interiorizzare ciò che gli accade e apprende che il DPTS è un disturbo d’ansia che si sviluppa quando la persona si trova in condizioni molto stressanti o traumatiche.
Altro elemento cardine dell’intervento è l’esposizione: il paziente viene inizialmente sollecitato a ripercorrere con la mente l’episodio stressante in modo da permettergli di riviverlo nell’ambiente sicuro della terapia e di esplorare, con l’aiuto del terapeuta, le reazioni e le convinzioni relative all’evento.
Ciò ci porta a considerare un ulteriore elemento di intervento che è dato dalla elaborazione emozionale, grazie alla quale il paziente viene sollecitato ad analizzare e risolvere sentimenti di rabbia, vergogna o colpa che affiorano in relazione all’evento stressante vissuto.
Al paziente vengono inoltre insegnate delle abilità di fronteggiamento rispetto ai suoi ricordi, reazioni emozionali e sentimenti post-traumatici, così da non lasciarsi sconvolgere o turbare da ciò che ha vissuto o in modo da evitare l’appiattimento affettivo.
Da considerare tuttavia che generalmente con la psicoterapia i ricordi traumatici non scompaiono del tutto, ma possono diventare più “gestibili” grazie proprio all’apprendimento e all’utilizzo di queste nuove abilità di fronteggiamento (Lo Iacono 2005).
La terapia cognitivo-comportamentale è quindi un approccio che, come abbiamo visto fin qui, prevede la combinazione di più elementi, dal momento che si focalizza sulle distorsioni cognitive, allo scopo di correggerle tramite la ristrutturazione cognitiva, sui processi di appraisal, sulle memorie traumatiche intrusive e quindi sulla desensibilizzazione agli stimoli associati al trauma attraverso, inoltre, tecniche comportamentali come l’esposizione ripetuta (Connor e Butterfield 2003).
Come riportato da Andrews e coll. (2003) “il DPTS è un disturbo d’ansia caratterizzato da una persistente attivazione, con elevati livelli di paura correlati ai ricordi e agli stimoli che evocano il trauma”.
Nelle persone che hanno vissuto un’esperienza traumatica tutto ciò può accompagnarsi ad uno scarso monitoraggio e ad una scarsa comprensione delle proprie reazioni psicologiche ed emozionali determinando, di conseguenza, una condizione di vulnerabilità e scarso senso di controllo personale.
Conseguentemente, è importante che il terapeuta insegni al paziente le “strategie di gestione dell’attivazione e della sofferenza psicologica”: tale intervento sarà propedeutico nell’affrontare gli interventi di esposizione comportamentale.
La gestione della sintomatologia ansiosa può essere realizzata, inoltre, tramite interventi incentrati sul corpo, oltre che sugli aspetti cognitivi e comportamentali fin qui considerati.
In particolare sono utili interventi volti a modulare l’eccessiva attivazione fisica delle reazioni correlate con lo stress traumatico, come ad esempio la tecnica di controllo della respirazione e il rilassamento muscolare progressivo, oltre che indicare al paziente di ridurre l’assunzione di stimolanti come la caffeina e la nicotina.
Questo tipo di interventi aiutano la persona ad acquisire un senso di padronanza sui sintomi fisici di eccessiva attivazione e possono avere anche ripercussioni nel produrre miglioramenti del senso di autoefficacia.
Le tecniche cognitive intervengono sulla “natura intrusiva dei ricordi traumatici e la tendenza di molti pazienti ad avere una ruminazione mentale dell’esperienza traumatica”, quindi “hanno lo scopo di dare al paziente un certo controllo sui suoi ricordi limitando il tempo che passa pensando all’evento e il malessere associato.”
Alcune di queste tecniche sono pertanto dirette a controllare la frequenza e la durata degli eventi cognitivi che creano sofferenza.
Sempre secondo Andrews e coll. (2003), “gli interventi comportamentali sono spesso mirati a specifici bisogni del paziente”: possono essere utili interventi di programmazione delle attività e di strutturazione delle giornate, oltre che di reinserimento sociale, in quanto spesso tra le reazioni allo stress traumatico vi sono il ritiro e l’isolamento sociale.
In altre parole, la persona che ha subito un evento stressante traumatico viene incoraggiata nel riprendere quanto prima le normali attività quotidiane, in quanto la ripresa della normale routine la può sicuramente aiutare a riguadagnare un senso di struttura e di controllo sulla sua vita.
Donald Meichenbaum ha ideato lo Stress Inoculation Training (SIT): si tratta di una psicoterapia cognitivo comportamentale che si pone l’obiettivo di favorire l’apprendimento di strategie di gestione dell’ansia e dello stress. Si compone di tre fasi: la prima fase è la concettualizzazione nel corso della quale si forniscono al paziente le informazioni sullo stress al fine anche di operare una ristrutturazione di possibili idee errate sullo stesso.
Nella seconda fase vi è l’apprendimento e la prova delle abilità di fronteggiamento per cui si ha non solo un lavoro sul problem solving ma anche sull’apprendimento di tecniche di rilassamento e l’applicazione di strategie cognitive, tra cui la ristrutturazione.
Il paziente impara inoltre a utilizzare delle autoaffermazioni positive: il terapeuta durante la seduta lo aiuta nel formulare dei ragionamenti da ripercorrere poi nei momenti “critici” e nelle fasi di esposizione alle situazioni ansiogene.
Nella terza fase infine vi è l’applicazione e il richiamo delle abilità. Vengono applicate anche tecniche immaginative, con cui il paziente immagina di affrontare le situazioni ansiogene, correlate al trauma, identificando i punti critici e affrontandole efficacemente sul piano dell’immaginazione.
In ultimo vi è la prova comportamentale in cui si attua una esposizione graduale, questa volta in vivo, nella concretezza delle situazioni di vita quotidiana.
Entrando più nello specifico del trattamento indicato per il DPTS, lo SIT inizia con una prima fase psicoeducativa in cui si descrive al paziente lo sviluppo delle risposte d’ansia e il condizionamento agli stimoli ansiogeni.
Il terapeuta incoraggia il paziente a identificare gli stimoli che suscitano in lui risposte di ansia e di evitamento e spiega che l’ansia si può esprimere sia con reazioni fisiologiche che con pensieri e comportamenti.
Il paziente apprende in seguito le abilità per gestire queste tre componenti dell’ansia.
Impara quindi varie tecniche di rilassamento che vengono combinate con approcci cognitivi ed è incoraggiato ad esercitarsi costantemente nell’applicazione di queste tecniche.
Dopo essersi esercitato nel far fronte alle reazioni fisiologiche e ai pensieri indesiderati, il paziente applica tecniche di ripetizione immaginativa e di role-playing per affrontare l’evitamento comportamentale, esercitandosi ad utilizzare metodi di fronteggiamento nelle situazioni ansiogene.
Lo psicoterapeuta discute col paziente la differenza tra ansia adeguata e realistica e reazioni ansiose innescate da stimoli associati al trauma. Per affrontare i comportamenti di evitamento, è necessario incoraggiare il paziente a usare le abilità di fronteggiamento insieme alla procedura di Stress Inoculation che consiste nel: valutare obiettivamente la probabilità che l’evento traumatico si ripeta, gestire la tendenza all’evitamento comportamentale, controllare la tendenza all’autocritica e all’autosvalutazione, eseguire i comportamenti temuti e nel concedersi delle ricompense per i tentativi comportamentali e per l’impegno a seguire il protocollo di cura (Lo Iacono 2005).
Una fase molto importante nella psicoterapia è quella dell’esposizione in quanto permette al paziente di confrontarsi concretamente e gradualmente con gli stimoli temuti fino a che l’ansia diminuisce.
Questa tecnica viene utilizzata nel trattamento della maggior parte dei disturbi d’ansia ed è provato che, generalmente, quella in vivo risulta più efficace di quella in immaginazione.
Nel caso del DPTS, l’esposizione in vivo viene fatta rispetto agli stimoli esterni come attività, luoghi, oggetti o persone che provocano ansia in conseguenza del trauma. Tuttavia si consideri come, nel caso specifico qui considerato del DPTS, essendo i ricordi traumatici il principale stimolo temuto, gran parte dell’esposizione deve avvenire in immaginazione, ed il paziente sarà incoraggiato nel raccontare in dettaglio l’esperienza traumatica vissuta e nel verbalizzare il suo livello di ansia e di sofferenza (Andrews et al. 2003).
Gli approcci di Foa e Rothbaum (1998) e quello di Marks e coll. (1998) utilizzano l’esposizione immaginativa agli eventi traumatici in seduta, seguita da sedute di esposizione in vivo a stimoli associati al trauma privi di rischio ma fonti di sofferenza psicologica. Anche in questo caso gli esercizi di esposizione sono sempre organizzati gerarchicamente, cioè dagli stimoli meno dolorosi a quelli più dolorosi.
Nel caso dell’esposizione immaginativa, qualora vi siano più ricordi traumatici, si può stabilire una gerarchia di ricordi e cominciare l’esposizione partendo dal più facile da affrontare.
Nel caso di eventi traumatici singoli invece si può procedere nel graduare l’esposizione consentendo al paziente, negli esercizi iniziali, di saltare le parti più disturbanti del ricordo, di tenere gli occhi aperti, e solo in un secondo momento gli verrà richiesto di tenerli chiusi rendendo mentalmente le immagini più vivide.
Misurando i tempi e proponendo con attenzione queste tecniche lo psicoterapeuta potrà mantenere il malessere e l’ansia a livelli intensi ma comunque contenuti e gestibili per il paziente, in modo da poter permettere l’esposizione e da poter essere quindi controllati con senso di padronanza.
A cura della dott.ssa Eugenio Ferrovecchio