Il ruolo dell’emotività espressa nel relapse schizzofrenico

A cura della Dott.ssa Rebecca Farsi
Il termine Emotività Espressa ( EE) descrive il contesto emotivo di un nucleo familiare i cui equilibri relazionali sono stati compromessi dalla diagnosi di una patologia- molto spesso a carattere psicotico- a carico di uno dei membri (Bertrando, 1997).
Vaughn (1988) la definisce una sorta di termometro che misura la quantità e la qualità della comunicazione affettiva tra i membri del nucleo durante l’evoluzione della patologia, rispondendo a domande del tipo: “quante e quali emozioni la famiglia riesce ad esprimere, con quale frequenza ed intensità, quali sono le modalità relazionali che si instaurano tra il malato e il resto del nucleo”.
Un indice elevato del costrutto rivela il predominio di emozioni negative, tese in particolare all’ipercriticità, all’intransigenza, all’atteggiamento invasivo e controllante nei confronti del malato, e non da ultimo ad una sua colpevolizzazione, tale da imputargli, talvolta, l’insorgenza stessa della malattia.
Di converso, un basso indice di emotività espressa indica una maggiore capacità di adattamento alle conseguenze della patologia, manifestata attraverso calore affettivo nei confronti del familiare, spiegazione non colpevolizzante della malattia, stile comunicativo aperto e orientato al confronto, modalità relazionale flessibile e accogliente (Leff, Vaughn, 1985). Questi atteggiamenti sembrano avere un impatto particolarmente positivo sulla gestione dei sintomi, con beneficio della qualità dell’interazione, della comunicazione e della qualità della vita (Rosenfarb et al, 1995; Heikkila et al., 2003).
Al contrario un modello affettivo costruito sull’EE contribuisce non solo al mantenimento della patologia, ma ne favorisce la ricomparsa dopo un trattamento terapeutico ( Asarnov et al., 1993; Brown, 1985; Bebbington e Kuipers, 1994; Heikkila et al. 2003; Kanter, 1987; Rosenfarb et al. 1995). Le dimensioni su cui si basa il costrutto di EE – ostilità, stigma, colpevolezza, ipercriticismo- tendono infatti ad esacerbare nel paziente un vissuto di stress e disagio, debilitando risorse utili alla ripresa e al ripristino delle funzioni egoiche, sul breve e sul lungo termine.
Emotività espressa: non solo conseguenza della psicosi
Interpretare il costrutto di EE soltanto come una conseguenza della patologia psicotica è parso tuttavia imprudente nel momento in cui, studi scientifici finalizzati ad evidenziarne gli effetti iatrogeni lungo il decorso psicotico, lo hanno identificato come un fattore precipitante del disturbo, in presenza di una vulnerabilità biologica allo stesso.
Ricerche specifiche evidenziano come, soggetti geneticamente predisposti alla patologia schizofrenica, riescano ad evitarne o a ritardarne lo sviluppo (anche in situazioni di criticità) proprio grazie alla presenza di uno stile affettivo familiare caratterizzato da empatia, accoglienza e basso indice di EE ( Brown, 1966; Heikkila, Brown, 1985).
Uno studio effettuato su adolescenti vulnerabili all’esordio psicotico ha evidenziato una sostanziale riduzione dell’esordio sintomatologico e un miglioramento nella funzionalità globale in presenza di uno stile comunicativo empatico e di un pattern relazionale non conflittuale all’interno della famiglia (O’Brien et al. 2006).
Un ruolo decisivo dell’emotività espressa nell’esordio psicotico viene confermato da un follow- up a lungo termine effettuato su soggetti schizofrenici adottati e sulle rispettive famiglie adottive, i cui risultati hanno confermato come un alto indice di EE sia in grado di favorire lo sviluppo della schizofrenia, mentre un basso livello si mostri un fattore protettivo della stessa, pur in presenza di una vulnerabilità genetica (Tienari et al. 2004).
Anche lo stile educativo ricopre un ruolo eziopatologico di rilievo: misurazioni del livello di EE effettuato su genitori di bambini depressi/distimici e di soggetti non patologici ha mostrato valori nettamente più elevati nei primi; Stubbe e colleghi (1996) hanno inoltre evidenziato come, figli di madri con un elevato livello di EE, corrano un rischio otto volte superiore di sviluppare disturbi esternalizzanti, disturbi d’ansia e dell’umore, DOC e disturbi dell’alimentazione.
Studi longitudinali specifici hanno infine accertato come due dei principali fattori costitutivi del costrutto di EE- l’ipercrititismo e la colpevolizzazione- favoriscano stili di attaccamento disorganizzati e lo sviluppo di disturbi comportamentali sin dall’età prescolare ( Lyons Ruth e Jacobvitz, 2008; Liotti, 1992).
Un importante cambio di scenario
Gli studi clinici illustrati hanno dunque contribuito ad inquadrare l’emotività espressa non soltanto come l’effetto iatrogeno di un disturbo psicotico, ma anche come un fattore precipitante del disturbo, in presenza di una vulnerabilità biologica allo stresso. In particolare sarebbe il fattore di ipercriticismo a comportare un innalzamento dell’esposizione alla patologia, in quanto priva il malato di quell’ambiente di comprensione, empatia e calore necessari a mantenere il giusto contatto con il Sé e con la realtà, evitando lo sviluppo di vissuti di disagio, colpevolizzazione, disprezzo del Sé e auto distruttività (Strassberg, 1995).
Il contesto relazionale svolge un ruolo effettivamente protettivo nell’insorgenza di un disturbo psicotico già emerso o ancora latente ( Stubbe et al, 1993; Hibbs et al. 1991): conclusione che va a convalidare l’ipotesi già formulata da Brown ( 1962) per il quale la psicosi non è soltanto un evento descrivibile o modificabile solo in termini organici, risultando piuttosto l’esito di una intersoggettività disfunzionale e di una dinamica relazionale altrettanto carente, riscontrabili sin dal contesto diadico.
Ovviamente il disturbo schizofrenico presenta una natura multiderminata e di complessa evoluzione, e attribuirne la presenza ad un solo fattore sarebbe clinicamente imprudente. È tuttavia rilevante aver riscontrato come, un contesto familiare emotivamente conflittuale e disorganizzato, potrebbe costituire una delle cause precipitanti del disturbo, tale da ostacolare la ripresa anche dopo l’applicazione di programmi terapeutici specifici.
Misurazione del costrutto di emotività espressa
Il primo strumento di misurazione dell’ Emotività espressa è stata la Camberwell Familiy Interview, un’intervista semistrutturata messa a punto da Brown negli anni ‘80, e finalizzata alla valutazione di quattro sottodimensioni specifiche- ipercoinvolgimento emotivo, commenti critici, sottolineature positive/negative e calore– considerate i maggiori indicatori del costrutto di EE ( Di Paola, Faravelli, Ricca, 2008).
Si tratta dello strumento attualmente più attendibile e specifico nella misurazione del costrutto; ciò nonostante alcuni punti critici strutturali ne abbiano limitato l’impiego sin dagli esordi.
In particolare si segnalano:
- l’assenza di un aspetto cultur free: il costrutto di emotività espressa identificato dalla Camberwell Family Interview risulta fortemente condizionato dal contesto culturale. Ad esempio, in territorio orientale i suoi risultati appaiono effettivamente divergenti rispetto a quelli ottenuti in ambito occidentale, probabilmente a causa della diversa espressività emotiva e del differente stile comunicativo che caratterizza le due culture;
- la lunghezza di somministrazione: motivo per cui, già dalla metà degli anni ‘90, si è assistito alla creazione di strumenti di indagine valutativa più brevi e meno dispendiosi, tra cui il Five Minute Speech Sample ( Magana, 1986) test che richiede a ciascuno dei familiari di descrivere brevemente, nel tempo ininterrotto di sei minuti, il proprio vissuto relazionale con il congiunto ( la seduta si svolge in collettivo, ma ogni familiare viene ascoltato singolarmente per impedire che la presenza dell’altro possa costituire un fattore ostativo alla libera espressione). Il tempo di somministrazione risulta notevolmente ridotto: appena 5 minuti contro le 4 ore richiesta dalla CFI.
L’importanza della gestione emotiva nell’emotività espressa: la psicoeducazione
Un modello di emotività positiva favorisce la capacità di fronteggiare i risvolti critici di una diagnosi di psicosi, e ne agevola la gestione all’interno del nucleo familiare (Kanter et al., 1987).
Importante il sostegno affettivo: in uno studio condotto su 69 pazienti e 108 familiari, un buon coinvolgimento emotivo appare associato ad un miglior funzionamento sociale, laddove l’ipercriticismo e l’ostilità comunicativa risultano in grado di inibire le relazioni, aumentare lo stress e favorire le ricadute (King e Dixon, 1996). Accogliere il paziente e farlo sentire compreso, contribuisce pertanto alla costruzione di un clima relazionale favorevole agli obiettivi riabilitativi.
Ovviamente non è un compito semplice. Nel tentativo di mantenere l’omeostasi, dopo la diagnosi di psicosi la famiglia del paziente può attuare meccanismi di minimizzazione, normalizzazione o colpevolizzazione, privilegiando i silenzi, gli agiti e le deleghe di responsabilità.
Spesso più che una soluzione si va in cerca di un colpevole.
Soprattutto se si tratta di famiglie già caratterizzate da un’intersoggettività altamente conflittuale, da una modalità di espressione emotiva per lo più agita e da un pensiero concreto, opporre risposte disfunzionali alla diagnosi psicotica si rivela più che mai probabile. È a questo punto che l’indice emotivo, elevandosi ulteriormente, diventa un fattore precipitante della malattia, favorendone la non trattabilità ( Brown, 1962).
È perciò necessario che la famiglia riceva un trattamento psicoeducativo finalizzato alla gestione individuale e relazionale del sintomo, per impedire l’innescarsi di un circolo vizioso in cui l’incompetenza gestionale della patologia esiti in un processo ulteriormente degenerativo della stessa.
- È importante che la famiglia conosca gli aspetti clinici della psicosi, in modo che una competenza più precisa possa incrementare i vissuti di agency e autoefficacia, da cui un diminuito senso di impotenza e maggiori skills di reazione.
- Al contempo è importante trovare un equilibrio tra esperienza e formazione, una dimensione che sappia legittimare, pur all’interno di un percorso rieducativo, l’esperienza relazionale tra i familiari e il malato, e ne accolga le componenti espressive- finanche quelle critiche- in una prospettiva di riconoscimento;
- Non è sempre facile gestire i comportamenti di un paziente psicotico, come non è facile mantenere il controllo di fronte all’evoluzione di una malattia spesso imprevedibile. La famiglia può sentirsi abbandonata anche sotto il punto di vista assistenziale, amplificando così la probabilità di sviluppare contesti emotivi stressogeni, comunicazioni agite e reazioni cortocircuitali, in grado di compromettere gli equilibri e le dinamiche. Ciò appurato, i programmi di psicoeducazione sono volti alla costruzione di un clima empatico e collaborativo anche tra famiglia e i servizi sanitari, favorendo una rete di servizi che neutralizzi il carico emotivo, abbassi la tensione, aumenti il think positive e migliori la qualità dello stile relazionale comunicativo tra i vari componenti (Goldstein, 1995; Hatfield, 1990).
La struttura del percorso riabilitativo
I programmi psicoeducativi vengono solitamente affiancati alla terapia farmacologica, che ne amplifica gli effetti terapeutici consolidandone la durata (Siracusano, 2014). Le sedute, condotte da uno o due operatori con cadenza settimanale/quindicinale, sono inizialmente rivolte ai soli componenti della famiglia, che vengono edotti sui significati clinici della malattia; quando il disturbo psicotico è stato illustrato nelle sue più tipiche declinazioni vengono organizzate sessioni di lavoro svolte alla presenza del paziente, allo scopo precipuo di migliorare lo stile interattivo-comunicativo del nucleo familiare, allontanando i possibili agiti e i conflitti.
Gli strumenti maggiormente utilizzati a tale scopo sono:
- Training emotivo: finalizzato a caldeggiare, nei rapporti interpersonali, l’impiego di emozioni positive, distinguendole tra positive attivanti -ad esempio la gioia, la speranza, la capacità empatica- e positive disattivanti, come il sollievo e la calma; al contempo viene scoraggiata la presenza di emozioni negative, tanto quelle attivanti – come l’ansia, la rabbia, la vergogna, che quelle disattivanti -come l’impotenza, la frustrazione, la rassegnazione, l’aggressività passiva (Goldstein, 1985);
- Training educativi: atti alimitare contenuti emotivi la cui criticità potrebbe esacerbare il sintomo, provocando un conflitto simmetrico e più difficilmente gestibile. È soprattutto importante evitare la colpevolizzazione del paziente, magari attribuendogli -a mezzo di rimproveri, critiche e mortificazioni – il peso di una crisi, di un evento critico o della stessa ricaduta (Brown, 1962; Crescenzo, 2007);
- Analisi funzionale: educazione comportamentale il cui obiettivo non è tanto quello di eliminare il sintomo quanto di educare alla gestione dello stesso, spiegandone funzioni e finalità. In pratica, di fronte a crisi e criticità improvvise, si cerca di allontanare vissuti di impotenza e frustrazione per sostituirli con agency e competenza reattiva, spiegando le ragioni cliniche di condotte che, per un soggetto non patologico, appaiono prive di spiegazione (Falloon, 1994);
- Motivazione e accoglienza: esporre chiaramente le difficoltà in una prospettiva di condivisione può agevolare la condotta motivante, il senso di responsabilità e la pulsione supportiva, evitando stigmatizzazione ed etichettamento sociale. È per questo consigliato partecipare a programmi psicoeducativi svolti in gruppo, al fine di elicitare quel senso di identificazione reciproca, di responsabilità ed empatia che facilita la libera esposizione dei disagi e delle angosce, motivando al reperimento di soluzioni adattive efficaci per il singolo e per il gruppo (De Luca, 1995);
- Collaborazione reciproca: ciascuno dei componenti del nucleo deve poter contare sull’altro, conscio che, un modello relazionale collaborativo e reciprocante, incrementerà il costrutto di impegno e alleanza terapeutica lungo l’intero percorso riabilitante (Cazzullo, 2007).
- Tutela dell’autonomia: gli operatori sanitari non possono sostituirsi in modalità prevaricante al ruolo fattivo delle famiglie, né colludere con un processo decisionale delegante/passivo delle stesse. Lo scopo è al contrario quello di valorizzare ed implementare le capacità di gestione intersoggettiva attraverso un supporto direzionante ma mai direttivo (Bertrando, Clerici e Cazzullo, 1995).
La rilevanza del costrutto emotivo
…Valorizzare e potenziare le dinamiche relazionali significa costruire una rete di legami, in quanto esiste il bisogno di “una riflessione sugli elementi di solidarietà profonda che esistono a tutti i livelli della vita umana. Noi dobbiamo ritrovare (…) la coscienza di ciò che unisce (…), nella consapevolezza che tutte le nostre decisioni ricadono su di noi e che non vi è alcun “esperto” in grado di risparmiarcene il peso” (Gadamer, p. 162, 1991).
Gli interventi educativi si propongono di fornire strumenti utili ad acquisire capacità di gestione emotiva sana e adattiva, anche nei momenti di difficoltà. Per questo non se ne può prescindere, in vista di una ripresa duratura del paziente.
È necessario non isolarsi. Mettersi in gioco. Rendere i confini del nucleo familiare flessibili al sostegno, alla capacita trasformativa, all’adattamento.
La qualità dell’ambiente relazionale si mostra rilevante in tal senso, influendo non soltanto sul percorso evolutivo della malattia, ma sul suo stesso momento di esordio, alternativamente mostrandosene fattore precipitante o protettivo.
Il sostegno ai familiari e al malato rappresenta un punto di forza della riabilitazione, e come tale va perseguito e tutelato come obiettivo primario.
Un modello relazionale basato su uno stile emotivo comprensivo, accogliente e mentalizzante, favorirà la costruzione di quelle competenze empatiche che renderanno i progressi del paziente stabili e generalizzabili, ritardando il rischio di ricadute e migliorando la qualità della vita.
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